LA POLONIA E' PRONTA PER L' EURO? (di Giorgio Monteforti) |
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LA POLONIA E' PRONTA PER L' EURO? VARSAVIA - “Ribadisco la mia opinione che la Polonia debba entrare nell’ euro solo quando sara’ conveniente per la nazione” ha dichiarato il 7 Febbraio scorso Slawomir Skrzypek, presidente della Banca Nazionale, dopo l’ ultimo incontro dell’ RPP cioe’ la commissione nazionale per le politiche monetarie. Skrzypek lavorava come portaborse dei gemelli Kaczynski prima di essere nominato governatore della Banca di Polonia il 10 gennaio 2007. Allo scadere del mandato del precedente consiglio direttivo (dicembre 2006) i Kaczynski non sono riusciti a convincere nessuno in tutta la Polonia ad accettare l’incarico (si sono tutti rifiutati di lavorare con e per i gemelli) e allora hanno dovuto ordinare al fedelissimo Skrzypek di sostituire il governatore uscente e mostro sacro dell’ economia europea Leszek Balcerowicz (colui che ha ideato le riforme economiche di molti dei paesi ex sovietici). Non avrebbero potuto fare altrimenti visto che solo lui, tra i membri dello staff Kaczynski, era l’ unico ad avere fatto un qualche corso di economia. E infatti Skrzypek, in tema euro, non ha fatto altro che confermare l’ opinione non sua ma del suo burattinaio, il premier Jaroslaw Kaczynski, che lo scorso novembre alla domanda sul perche’ la Polonia fosse l’unica tra i nuovi membri UE a non aver stabilito una data per l’ ingresso nell’ Eurozona rispose: "E’ chiaro che dobbiamo entrare nell’ euro ma non abbiamo stabilito una data precisa perche’ lo faremo quando il livello di sviluppo economico della Polonia e quello dei paesi dell’ area euro sara’ piu’ vicino che adesso”. Comunque sia nel 2010, stando al premier (che per quella data crede di essere ancora al potere), si terra’ un referendum in cui ai cittadini polacchi verra’ chiesto se vorranno o meno adottare l’ euro. Democratico, se non fosse che nessuno, quel giorno, chiedera’ loro se sanno cos’e’ l’ euro e se sanno se il loro paese e’ pronto o no alla nuova moneta e a tutto quello che comporta. Un deja’ vu: volete Gesu’ o Barabba? La scelta sara’ pilotata, il governatore se ne lavera’ le mani e il Sinedrio avra’ ottenuto cio’ che voleva. CHI HA CREATO L’ EURO Un giorno di molti anni fa alla stazione di Genova incontrai un giovane laureato pugliese che era salito fin lassu’ due giorni prima per partecipare alla selezione del personale di una nota societa’ marittima del capoluogo ligure. Aveva speso un botto tra treno, pensione e trattorie senza considerare la fatica che doveva essersi fatto a portarsi dietro, oltre al bagaglio, il vestito buono della laurea accuratamente piegato e riposto in un porta-abiti pesantissimo. Gli chiesi come gli fosse andata e lui un po’ triste mi rispose che lo avevano scartato. Gli domandai il perche’ e lui mi disse che il suo inglese non era sufficientemente buono concludendo tra il serio e l’ offeso “questa poi. Perche’ mai dovrei avere un inglese fluente?”. Pensa te. Dopo tutti gli anni passati sui banchi di liceo e nelle aule universitarie non gli era mai passata per l’ anticamera del cervello l’ idea che se si vuole riuscire ad affermarsi come individuo ed avere qualche chance di uscire dalla mediocrita’ intellettuale (che poi si riflette nel tipo di lavoro che si fa e nella vita sociale che si conduce) le lingue straniere e l’ inglese in particolare sono assolutamente indispensabili. Non fosse altro che per tutti i giornali, i libri e i video in piu’ che si possono leggere, guardare, ascoltare e ognuno dei quali rappresenta un tassello fondamentale nella maturazione intellettiva e culturale di una persona. La differenza fra le universita’ di elite (come la Bocconi di Milano, la Normale di Pisa, la Luiss di Roma) e tutte le altre sta proprio qui. Non tanto in professori migliori e maggiori disponibilita’ di strutture e risorse quanto nelle competenze personali che parallelamente agli studi obbligano ad accrescere. Come la perfetta padronanza della lingua inglese ma non solo. In queste universita’ ad esempio il voto di un esame non tiene conto esclusivamente della singola performance del candidato (come in una normale universita’) ma dipende anche dalla qualita’ totale delle performance degli studenti dato che i voti vengono tassativamente assegnati secondo un andamento gaussiano dove pochi prendono 30 e pochi 18 e tutti gli altri stanno in una forchetta compresa tra il 22 e il 26. In altre parole nelle grandes ecoles per avere un buon voto non serve solo farsi il mazzo a studiare ma bisogna anche strategicamente scegliere l’ appello giusto in modo da evitare il piu’ possibile i secchioni e avere dunque piu’ probabilita’ di ricevere un voto alto. Quindi se in una normale universita’ l’esame e’ il momento in cui lo studente deve dimostrare la sua accresciuta competenza in uno specifico soggetto e dunque far capire di essere diventato un uomo migliore e piu’ completo, in una universita’ d’elite l’esame per uno studente e’ un banco di prova per testare la sua ambizione, la sua attitudine al successo, l’efficacia della sua predisposizione alla prevaricazione degli altri perche’ nel mondo in cui saranno chiamati a operare solo i piu’ spietati sopravvivono. Mentre i bocconiani dunque ricordano come un incubo ogni esame superato io con nostalgia ripenso a quella bolgia di capelloni, scansafatiche, furbi, mariuoli, drogati, pazzoidi, visionari e allucinati con i quali ho dato i miei di esami e che al voto gaussiano preferivano decisamente il voto politico: basso e uguale per tutti purche’ si studiasse poco e ci fosse tutto il tempo per andare a fare surf. Non e’ un caso che chi studia “in Bocconi” (come dicono loro) riceva importanti offerte di lavoro gia’ al terzo anno di universita’ senza neppure essere a meta’ degli studi mentre gli altri faticano a rimediare un contrattino anche dopo anni dalla laurea. Perche’ l’ istruzione universitaria tradizionale ha come fine ultimo l’ elevazione di individui che per profitto e per filosofia tendano a migliorare la societa’ (e quindi inadatti al business) mentre le top universities puntano alla creazione di individui che per profitto e filosofia tendano a sottomettere la societa’ (e allora perfetti per far quattrini). La differenza tra i due metodi educativi e’ come quella che passa tra un cavallo a cui si da’ uno zuccherino per farlo saltare piu’ in alto e un cane da combattimento a cui si danno un sacco di bastonate per renderlo piu’ aggressivo. Per di piu’ se l’Universita’ di Firenze, la Columbia University di New York e l’Universita’ di Varsavia per raggiungere il loro scopo educativo devono differenziare l’insegnamento perche’ inserite in contesti sociali e culturali diversi, la Bocconi italiana, l’Harward americana, la SGH polacca insegnano tutte allo stesso modo le stesse identiche cose. E l’ unione, non il numero, fa la forza. Coloro che hanno dato vita al progetto euro (dagli ideatori, ai progettisti, ai realizzatori) sono tutti ex studenti di quest’ ultime. Forse non si sono mai conosciuti tra loro ma pensano tutti alla stessa maniera e sono giunti tutti alle stesse conclusioni. PERCHE’ L’ EURO Nel 1789 il popolo francese insorse contro la sua classe dirigente, ne arresto’ i capi cioe’ il re e la regina e i maggiori esponenti cioe’ i nobili, li accuso’, li processo’, li condanno’ e taglio’ loro la testa. Di per se’ la cosa non impressiona piu’ di tanto. Gli Iraqueni, pardon, gli Americani con Saddam e i suoi hanno fatto piu’ o meno lo stesso. La differenza tra ieri e oggi sta pero’ nel fatto che mentre ai nostri tempi i governanti vanno e vengono o con le buone (le elezioni o le proteste) o con le cattive (missili o carri armati), alla fine del 700 si credeva seriamente (non lo si faceva credere: si credeva e basta) che il re e la nobilta’ detenessero il potere per volonta’ dello stesso Dio e quindi rovesciarli e metterli a morte (come nel caso di Luigi XVI e Maria Antonietta) equivaleva a commettere un sacrilegio. I Francesi a commettere sacrilegi, togliere a pochi per dare a molti, non si sarebbero fermati qui. Nel 2000 entra in vigore in Francia la legge sulle 35 ore che stabilisce che ogni lavoratore dipendente puo’ al massimo lavorare 35 ore settimanali e non un minuto di piu’ perche’ non solo e’ ridotto l’ orario di lavoro ma anche gli straordinari sono aboliti. Da molto tempo una larga parte dei cittadini francesi chiedeva salari ridotti ma piu’ persone occupate e la possibilita’ per tutti di godere di 8 settimane di ferie all’ anno e 22 giorni liberi infrasettimanali. Stephane Marchand, giornalista di Le Figaro, intervistato dalla CBS sull’ argomento ha spiegato che in Francia il profitto viene dopo, molto dopo, il vivere bene e che in fondo “la grande differenza la fanno i soldi o meglio il posto che nella vita si da’ ai soldi”. Certo Marchand agli Americani si e’ dimenticato di precisare che le 35 ore valgono solo per gli impiegati statali ma questo non cambia il senso delle sue parole. Perche’ almeno in Francia si ha la possibilita’ di scegliere tra guadagnare meno e lavorare meno (nel pubblico) o guadagnare tanto e lavorare tanto (nel privato). I Francesi dal 2000 ad oggi hanno dimostrato in concreto che dare la possibilita’ a chi la vuole di ridurre il proprio tenore di vita a fronte di maggiore tempo libero non intacca la produttivita’ e l’ economia del paese (il PIL francese cresce costantemente a una media del 2% l’ anno) ma migliora molto la qualita’ della vita visto che il tasso di poverta’ (i poveri sul totale della popolazione) e’ al 9% contro il 15% dell’ Inghilterra e il 18% degli USA. Allora perche’ mai politici, deputati, ministri, funzionari, manager e capitani d’ industria francesi (che hanno studiato tutti nelle stesse scuole) a forza cercano di abolirla? E come mai in tutti gli altri paesi europei (dove la classe dirigente ha studiato nello stesso tipo di scuole dei colleghi francesi) e’ addirittura in atto una politica volta a precarizzare il lavoro rendendolo ancora piu’ flessibile cioe’ insicuro, meno remunerato e allo stesso tempo piu’ intensivo? Elementare. Perche’ dare piu’ tempo libero alla gente significa metterla in una condizione di minore stress e quindi in posizione privilegiata nell’ informarsi, nell’ incontrarsi, nel discutere, nel capire e se nel caso ribellarsi. Dell’aumentata sensibilita’ della popolazione francese dovuta al riposo e al maggior tempo dedicato all’ informazione e al dibattito ne ha fatte le spese nel 2005 il ministro delle finanze Herve Gaymard che e’ stato costretto a dimettersi quando si e’ venuti a sapere che l’ affitto del suo appartamento di Parigi veniva a costare ai contribuenti 14000 euro al mese o il primo ministro Raffarin e con lui tutti gli imprenditori e manager francesi quando nella primavera del 2006 si sono visti sollevare un’ intera nazione al tentativo di introdurre anche in Francia una “legge Biagi” (gia’ da tempo in vigore in quasi tutti i paesi dell’ UE). Per Gaymard e Raffarin fine della carriera e ritiro in disgrazia, per gli uomini d’affari guadagni ridotti perche’ non autorizzati a ridurre le spese a danno dei loro dipendenti. E’ ovvio che i laureati delle scuole d’elite in Francia come in tutti gli altri paesi europei (episodi simili a quelli francesi sono accaduti in tutta l’Unione vedi l’Ungheria) abbiano avuto un sussulto nel realizzare che la gente comune puo’ spingerli a farli desistere dai loro progetti e addirittura a costringerli al ritiro o al fallimento. In fondo non e’ tutta colpa loro. Gli e’ stato insegnato che potere e profitto sono cose da galantuomini. Puo’ succedere di perderli ma solo per mano di altri gentiluomini e solo dopo un regolare duello combattuto secondo le regole della politica (per i politici) o secondo quelle del business (per i manager). Non certo perche’ ci si mette di mezzo il popolino. Perche’ tutto ritorni all’ ancien regime con i signori che comandano e i servi che obbediscono, oggi in tempi di democrazia dove condannare al rogo per stregoneria o al taglio della testa per lesa maesta’ e’ proibito dalla legge, l’unica soluzione praticabile e’ quella di tenere la gente al verde e costringerla a lavorare il piu’ possibile in modo che non abbia la serenita’, il tempo, la forza e la motivazione di emanciparsi. L’Euro avrebbe dovuto servire proprio a questo. Non confondiamo le date. L’ idea dell’ Euro viene fuori molto prima delle 35 ore e cioe’ nel 1988 quando la Commissione Europea affida a un comitato presieduto da Jacques Delors (che poi era anche presidente della commissione) lo studio sulla fattibilita’ di una moneta unica. Uno strumento necessario a traghettare il continente attraverso l’ imminente cambiamento degli equilibri sociali e politici che l’ annunciato crollo dei regimi comunisti avrebbe determinato (come la borghesizzazione del proletariato e la proletarizzazione della borghesia che avrebbe saldato due forze dirompenti da sempre ideologicamente separate e spaventate l’ una dall’ altra) e soprattutto a far si’ che la classe dirigente non solo rimanesse in sella (pur sapendo che qualcuno avrebbe dovuto essere sacrificato) ma ci guadagnasse anche qualcosina. Le 35 ore in Francia, Mani Pulite in Italia fanno parte della serie di scosse di assestamento che tanto spaventavano Delors e compagni e che, come prevedevano, hanno avuto effetti sgradevoli (dal loro punto di vista). Ma niente paura. L’ Euro, come loro lo avevano concepito, avrebbe riportato tutto alla normalita’. Inutile ricordare dove abbia studiato praticamente la quasi totalita’ dei membri di quel comitato. IL PRINCIPIO FONDANTE DELL’ EURO: IL FORDISMO L’ America come noi oggi la conosciamo (Bush, McDonald e pena di morte) non e’ sempre stata cosi’. Per tutti i primi 100 anni della sua storia e’ stata un modello di progresso democratico e sociale. Per dirne qualcuna negli USA dell’ 800 quasi tutta la popolazione era alfabetizzata (nel 1860 gli analfabeti in America erano il 4% in Italia il 78%), il servizio sanitario capillare e gratuito (in Italia solo dagli anni del boom economico), il suffragio garantito anche alle donne in alcuni stati come il Colorado, l’ Utah e l‘ Idaho (diventera’ universale solo nel 1919 con il XIX emendamento in compenso in Italia le donne votarono per la prima volta nel 1946). Gli Americani erano inoltre un popolo parsimonioso e risparmiatore che limitava i consumi all’ indispensabile (persino a Boston o a New York) e manteneva un basso tenore di vita. Non lo dico io ma tutti i viaggiatori europei che a piu’ riprese visitarono gli Stati Uniti come il francese Alexis de Tocqueville (De la Démocratie en Amérique, 1835-1840), l’ inglese Charles Dickens (American Notes, 1842), l’ italiano Francesco Varvaro Pojero (Una corsa nel Nuovo Mondo, 1878). Fu Henry Ford, proprietario della Ford Motor Company, che nel 1914 cambio’ le carte in tavola. Da tempo l’ America era in subbuglio per il diffondersi del socialismo laico (di ispirazione marxista) e di quello religioso (di ispirazione cristiana) che chiedevano con sempre piu’ insistenza ai grandi industriali come Rockfeller condizioni di lavoro piu’ umane e paghe piu’ alte. I frequenti scioperi e occupazioni danneggiavano le industrie e sfinivano gli scioperanti e non era insolito che durante le repressioni poliziesche ci scappasse il morto o, piu’ spesso, i morti. Il romanzo verita’ “The Jungle” (1906) del giornalista Upton Sinclair sulle mostruosita’ del lavoro nelle industrie conserviere di Chicago scosse profondamente l’ opinione pubblica americana e ebbe pesanti ripercussioni politiche. L’ America sembrava sull’ orlo di una seconda guerra civile. Ford, che prima di essere un industriale era soprattutto un inventore quindi un creativo, penso’ che il modo migliore per evitare guerre e scontri sociali fosse quello di far assaggiare ai poveri la droga dei ricchi: lo spendere e il possedere. Infatti chi non ha nulla di suo da perdere puo’ arrivare a fare di tutto, chi invece qualcosa di suo da perdere ce l’ ha ci pensa due volte prima di fare certe cose. Cosi’ raddoppio’ il salario degli operai che da 2.34 passo’ a 5 dollari l’ora, porto’ l’ orario di lavoro a 8 ore giornaliere anziche’ 9, e la settimana lavorativa da 6 a 5 giorni. Con l’ invenzione della catena di montaggio (sempre di Ford) che permetteva di risparmiare enormemente sui costi di produzione riusci’ a produrre la famosa Ford T a un prezzo abbordabile anche per i suoi dipendenti che finalmente avevano i soldi per comprarsela e il tempo per godersela. Ma non troppo. In pochi anni tutte le imprese americane raddoppiarono gli stipendi dei loro dipendenti e allo stesso tempo studiarono il modo di abbassare al massimo i costi dei loro prodotti e servizi. E fu un escalation di consumi (e di guadagni). Poi nel 1950 Ralph Schneider and Frank McNamara lanciarono sul mercato la Diners Club prima carta di credito in senso moderno, seguita poco dopo dall’ American Express, che permetteva un miracolo mai visto prima: spendere oggi quello che si guadagnera’ tra un mese. La corsa ai consumi ebbe un’ impennata senza precedenti tanto che a numerosi osservatori sembro’ non potersi arrestare mai. Il fordismo, come Ford aveva previsto, non solo fu da subito un successo ma resse fino a tutti gli anni ’50 senza praticamente trovare seri ostacoli o decisi criticismi. Questo perche’ il fenomeno psicologico legato al consumismo e’ noto. La psicologa Marta Richin dell’ Universita’ del Missouri dice che il materialismo crea nei soggetti irrealistiche aspettative su cio’ che un bene possa fare per loro in termini di relazioni sociali e felicita’. Fa si’ che le persone pensino che possedere un certo oggetto possa cambiare la loro vita in temini di immagine e di status. Almeno fino al momento dell’ acquisto quando cioe’ si accorgono che tutto e’ rimasto come prima e allora passano subito a desiderare qualcos’ altro di piu’ grande e di piu’ costoso in una spirale senza fine. Come calmiere sociale la formula di Ford basata sulla dipendenza da possesso che spinge a lavorare-comprare, lavorare di piu’-comprare di piu’, lavorare di piu’-indebitarsi-comprare ancora di piu’ aumentando l’ individualismo e l’ egoismo delle persone a scapito della socializzazione e della solidarieta’ e dunque dei movimenti per la giustizia sociale (che mettevano a rischio l’ ordine politico e il profitto economico) funziono’ alla perfezione. Gli Americani accecati dallo shopping che li costringeva a lavorare volontariamente sempre piu’ ore (per pagare debiti e crediti) accettarono di buon grado e senza alcuna protesta la prima guerra mondiale, la crisi del ’29 (dovuta a una battaglia tra poteri forti), la seconda guerra mondiale, i blocchi contrapposti e la minaccia nucleare. Purche’ due volte l’ anno ci fossero i saldi ai grandi magazzini. (Fine prima parte) Domenica 25 Febbraio 2007 17:58 originale: http://www.viaroma100.net/notizia_trovata.php?id=9289 LA POLONIA E' PRONTA PER L' EURO? II PARTE I NONNI DELL’ EURO: MISS STERLINA E MISTER DOLLARO VARSAVIA - Il sistema monetario di tipo moderno lo si puo’ far tranquillamente risalire al 1694 con la fondazione della Banca d’ Inghilterra quando venne istituzionalizzato il sistema di emissione e circolazione delle note di banca. La corona ufficialmente autorizzo’ che invece di smuovere forzieri di monete d’ oro o casse di lingotti d’ argento ogni volta che si doveva concludere una transazione commerciale la Banca, a seguito di un deposito di preziosi, rilasciasse una nota che certificasse l’ esistenza nei suoi forzieri dell’ ammontare della somma che si impegnava a corrispondere a chiunque presentasse quella stessa nota presso gli uffici dell’ istituto. Naturalmente se un mercante inglese pagava con questa nota bancaria un fornitore americano o portoghese non e’ che l’ americano o il portoghese si presentassero a Londra per ritirare i dobloni. Semplicemente cedevano la loro nota come forma di pagamento per un bene o un servizio a qualcun’ altro. Il sistema ebbe da subito un grande successo e cosi’ cento anni dopo, nel 1781 lo statuto della banca fu modificato e la Bank of England da banca di deposito si trasformo’ in banca di emissione vale a dire che la banca era autorizzata ad emettere non solo note di banca a fronte di un deposito privato ma anche banconote coperte dalle riserve (di oro e preziosi) di proprieta’ della stessa banca. Perche’ la Banca d’ Inghilterra fu riformata proprio nel 1781? Perche’ con la vittoria di Yorktown in Virginia (19 ottobre 1781) i ribelli americani sconfissero definitivamente gli inglesi che furono costretti a dare avvio ai negoziati di pace che con il Trattato di Parigi (3 settembre 1783) portarono al riconoscimento dell’ indipendenza delle 13 colonie americane. L’ Inghilterra perdeva cosi’ il suo mercato piu’ importante compromettendo seriamente la propria economia e rischiando la bancarotta. Per evitare il collasso o la lenta decadenza su modello spagnolo o veneziano i banchieri londinesi proposero allora la riforma bancaria per porre fine al vecchio processo economico detto mercantilismo che senza le colonie americane non poteva piu’ funzionare e dare inizio a quello che, fino a dopo la seconda guerra mondiale, sara’ conosciuto come colonialismo. L’ approccio mercantilista all’ economia e alla politica era quasi esclusivamente di tipo commerciale ossia ogni citta’, ogni popolo, ogni territorio era interessante in quanto potenziale acquirente o rivenditore di merci e materie prime. Compagnie come la portoghese Compania das Indias Orientais o l’ olandese West India Company non mandavano militari a conquistare una terra ma agenti di commercio a installare basi mercantili o a stringere accordi economici con i potentati locali. Il colonialismo invece si fondava sul concetto di occupazione e sottomissione di un territorio o di un popolo e della sua conseguente annessione alla madrepatria che lo rapinava di tutti i metalli preziosi esistenti o ancora da estrarre dalle miniere. Il resto (materie prime, forza lavoro, mercati) almeno in un primo momento era di secondario interesse. La ragione e’ semplice. La sterlina cartacea (le altre come il Franco e successivo impero coloniale arriveranno piu’ tardi) in forma di banconota altro non era che un certificato di possesso di una certa quantita’ d’oro conservata nelle casseforti della Banca d’ Inghilterra. Piu’ oro ci finiva dentro piu’ sterline la banca emetteva e piu’ soldi circolavano per la prosperita’ di tutti. Per questo i sudditi inglesi parteciparono con trasporto alla costruzione e all’ espansione dell’ impero perche’ piu’ conquistavano, piu’ oro riportavano a Londra, maggiore era il denaro che avevano in tasca. L’ estensione e le ricchezze sempre crescenti dell’ impero inglese e le enormi disponibilita’ aurifere della Bank of England a fronte di una crescente domanda globale di moneta circolante spinsero tutte le altre nazioni a basare il valore delle loro banconote non solo sulle riserve d’ oro nazionali ma anche sulle riserve di sterline che poi era come se fossero oro. Per esempio coloro che sul finire dell ‘800 si presentavano a Roma presso la Banca Romana (poi Banca d’ Italia) con 1000 lire potevano richiedere il corrispettivo in sterline e poi con le sterline andare a Londra e farsele convertire in oro. La prima e la seconda guerra mondiale pero’ esaurirono quasi per intero l’oro inglese (l’ Inghilterra usci’ dalla Grande Guerra con 10 miliardi di dollari di debiti) e quindi il sistema monetario globale doveva per forza essere rivisto. Nel 1941 a Bretton Woods nel New Hampshire 730 delegati di 45 paesi stabilirono un nuovo sistema monetario globale chiamato Gold Standard. Secondo gli accordi, tra le altre, il dollaro avrebbe sostituito la sterlina come moneta di riserva per le banche centrali e che ogni dollaro equivaleva a un trentacinquesimo di oncia d’oro. Niente cambiava dopotutto se non che la Banca d’ Italia avrebbe convertito le famose 1000 lire in dollari e non piu’ in sterline e che per avere l’ oro si sarebbe dovuti andare a Washington alla Federal Reserve invece che a Londra. L’ inflazione, che non e’ l’ aumento dei prezzi nei negozi come si crede comunemente, era data dal rapporto di cambio tra la moneta locale (per esempio la lira) e le riserve di dollari e oro della banca centrale. Per chiarirsi ipotizziamo che nel 1941 il cambio lira-dollaro fosse di 1000 a 1 cioe’ 1000 lire=1 dollaro. Se la Banca d’ Italia aveva in cassa oro e monete del valore di 1000 dollari per mantenere stabile il cambio di 1000 a 1 poteva emettere lire per un ammontare massimo di 1 milione. Se ne stampava 2 milioni la lira valeva la meta’ cioe’ con le solite 1000 lire si potevano avere al massimo 0,5 dollari (non piu’ 1) e dunque il deprezzamento della moneta, cioe’ l’ inflazione, sarebbe stata del 50%. L’ aumentare dei prezzi e’ solo una delle conseguenze del deprezzamento. Alle elementari mi hanno insegnato che se per comprare 1 mela devo spendere 1 dollaro e il dollaro vale 1000 lire la mela costera’ 1000 lire, ma se comprare la mela spendo sempre 1 dollaro e 1000 lire valgono 0,5 dollari e’ chiaro che la mela costera’ 2000 lire. Ecco perche’ le banconote dei regimi comunisti erano carta straccia. Le banche centrali della cortina di ferro per soddisfare il fabbisogno interno di moneta emettevano banconote a raffica senza preoccuparsi della copertura in oro e monete pregiate tanto che il valore intrinseco (non nominale) di un rublo o di uno zloty non era mettiamo di 1 dollaro (come le nostre 1000 lire) ma 0,0000001 dollari tanto che se il blocco sovietico avesse presentato le sue monete alla Federal Reserve e la Federal Reserve avesse accettato di cambiarle in oro ne avrebbero ricavato una cifra inferiore al costo dell’ inchiostro e della carta che erano serviti per stamparle. IL PADRE PUTATIVO DELL’ EURO: RICHARD GOLDFINGER NIXON Nel 1965 qualcosa sembro’ rompersi nell’ America della crescita e dei consumi illimitati. I movimenti di rivolta giovanile degli hippies, il Black Power di Malcolm X e le agitazioni femministe ne erano la prova. I giovani in eta' compresa tra i 18 e i 24 anni nel periodo che va dal '65 al '70, numerosi perche' figli del baby boom (nel 1965 quattro americani su dieci erano sotto i 20 anni) erano fortemente scolarizzati (il 44% di loro andava all' universita'), provenivano dalla classe media agiata ed erano cresciuti in un' epoca di consumi, elevata occupazione e nella piu' opulenta prosperita' materiale. Educati alle idealizzazioni degli anni '50 si trovarono a fronteggiare un mondo in realta' tutto diverso dominato dalla discriminazione razziale, dalla poverta', dall' incubo nucleare e soprattutto dalla gerarchizzazione sociale (la classe dirigente era esclusivamente di razza bianca e aveva quasi tutta studiato a Yale o a Harward dove i neri non erano ammessi). Nei campus le filosofie kennediane e johnsoniane che volevano una nazione americana sperimentatrice del futuro migliore dell' umanita' vennero ritorte contro l' America gerarchica, acquisitiva e discriminatoria responsabile, oltretutto, dell' escalation di morte e violenza in Vietnam. La protesta pacifista si trasformo' in scontro e rivolta aperti contro il sistema. Si diffuse tra i giovani un senso di separazione e di fondamentale estraneita' rispetto al paese e alle sue istituzioni. La poverta' nei ghetti (bianchi o neri) rimaneva forte, il razzismo restava anche se non era piu' legale, le istituzioni erano lente e tentennanti. Le donne lavoratrici (il 37,7% nel '60 e il 43% nel '70) erano stanche della discriminazione sessista: poche occupazioni subordinate, sottoposte a forti disuguaglianze salariali e occupazionali tanto che per le donne era praticamente impossibile fare carriera e raggiungere livelli manageriali (anche perche’ poche di loro avevano la possibilita’ di studiare nei campus della Ivy League). Nixon e il suo staff, entrati alla casa bianca nel 1969 dopo un decennio di governi democratici (Kennedy e Johnson), visto il ribollire popolare (proprio quando, in piena guerra fredda l’ America doveva mostrarsi piu’ compatta che mai) decisero che era giunto il momento di dare un bel giro di vite e il 15 agosto del 1971 annunciarono all’ America e al mondo che il Gold Standard era abolito. Milioni di persone in tutto il mondo non ci capirono un’ acca e non ci fecero neppure caso. I laureati di Berkley, della London School of Economics, della Bocconi e di tutte le altre si’. Nel 1959 Ian Fleming pubblico’ il suo settimo romanzo della serie James Bond che nel 1964 divento’ un popolarissimo film con protagonista Sean Connery. Nel libro Bond e’ chiamato a sventare il piano malvagio dei sovietici che attraverso il diabolico Auric Goldfinger (Aureo Ditodoro) volevano distruggere l’ intero sistema monetario occidentale (non il loro per il motivo del rublo-carta straccia) attaccando il Gold Standard. Goldfinger avrebbe dovuto far esplodere una bomba sporca (ante litteram) dentro Fort Knox in Kentucky che e’ una della due cassaforti degli Stati Uniti con le sue 4570 tonnellate di lingotti d’ oro (l’ altra e’ il caveau della Federal Reserve Bank of New York a Manhattan con 5000 tonnellate di lingotti). Il piano sembrava diabolico. Una volta esplosa la bomba e contaminato l’ oro gli USA non avrebbero piu’ potuto garantire la copertura in oro del dollaro che cosi’ avrebbe perso tutto il suo valore trascinando nel baratro anche tutte le altre monete e il capitalismo si sarebbe polverizzato all’ istante. Il povero Goldfinger pero’ se non fosse stato sconfitto da Bond il giorno dopo l’ esplosione della bomba sarebbe rimasto di sasso nel vedersi decorato con una medaglia del Congresso. Infatti se il suo piano fosse riuscito non solo avrebbe fatto un grosso favore agli odiati (da lui) capitalisti ma avrebbe pure alleggerito il bilancio statale (solo per gas ed elettricita’ Fort Knox costa all’ anno 100 milioni di dollari senza contare le 22 mila persone tra militari, tecnici e impiegati che ci lavorano). Il 16 agosto del 1971 infatti, dopo l’ annuncio di Nixon dell’ abolizione del Gold Standard (in pratica quello che voleva fare Goldfinger), le banche centrali e quelle commerciali continuarono a lavorare come se nulla fosse accaduto, e nelle borse di tutto il mondo si torno' a comprare e a vendere titoli normalmente. Niente crolli finanziari, crisi monetarie, fallimenti a catena, bancarotte a effetto domino. Che cosa era successo? Nixon e il suo segretario del tesoro, dopo aver concordato la manovra con i governi delle economie mondiali di riferimento (Canada, Giappone, Inghilterra, Francia, Germania) e aver imposto il cambiamento ai paesi satelliti (Sud America, Australia, Europa, Italia), avevano definitivamente sganciato dai metalli preziosi il valore delle monete e le avevano trasformate da certificati di deposito (dell’ oro che stava nelle banche centrali o alla Federal Reserve) in una semplice merce (soggetta quindi alla sola legge della domanda e dell’ offerta) universalmente accettata in forma di pagamento come il sale nell’ antica Roma (da cui la parola salario: nell’ antichita’ ci si pagavano gli stipendi) o le conchiglie in certe tribu’ africane o le bricchette di te’ in Cina. IL SECONDO PILASTRO DELL’ EURO: IL SIGNORAGGIO Con la fine del Gold Standard la moneta diventava una merce comune con un costo di produzione e un prezzo di mercato. Prendiamo ad esempio la banconota da 1 dollaro. La produzione di una banconota da 1 dollaro nel 2005 (materiali, stampa e distribuzione!) costava alla Federal Reserve appena 40 centesimi a banconota quindi per stampare i 3,5 miliardi di pezzi di banconote da 1 dollaro emesse nel 2005 ha pagato in totale 1,4 miliardi di dollari. Ma ha rivenduto ogni singolo pezzo al suo valore nominale cioe’ al prezzo di un dollaro incassando 3,5 miliardi con un guadagno netto di 1,6 miliardi. La Federal Reserve pero’ non ha venduto le sue banconote da un dollaro al semplice valore nominale (1 dollaro) bensi’ al valore nominale piu’ un ricarico detto Tasso di Sconto. Il TUS (tasso ufficiale di sconto) della Federal Reserve nel 2005 e’ fluttuato tra il 2,25 (a gennaio) e il 4,25 (a dicembre) ma per comodita’ ipotizziamo che la media sia stata il 3%. Se ne deduce che ai 3,5 miliardi di dollari incassati vanno aggiunti altri 105 milioni portando l’ incasso della Federal Reserve per la vendita di banconote da 1 dollaro a 3,605 miliardi e il guadagno netto a 1,705. Vanno poi considerati tutti gli altri tagli. Le banconote da 5 (576 milioni di pezzi), da 10 (512 milioni), da 20 (3 miliardi), da 50 (350 milioni), da 100 (670 milioni) sono costate sempre 40 centesimi l’ una ma rivendute a un valore nominale molto piu’ alto di quelle da un dollaro. In totale nel solo 2005 al netto delle spese con incluso il tasso di sconto la Federal Reserve ha guadagnato la bellezza di 156,7 miliardi di dollari che sono andati ad accumularsi alle riserve della banca. Perche' li' finiscono tutti i proventi della vendita del denaro e da li', per convenzione, non sono mai piu' rimossi: nelle riserve. Questo processo finanziario prende il nome di signoraggio dal nome dell’ antico diritto feudale del sovrano di trattenersi una parte dell’ oro che veniva portato alla zecca per essere trasformato in monete. Facciamo allora un’ altra ipotesi plausibile e cioe’ che mediamente dal 1971 la Federal Reserve abbia guadagnato ogni anno 150 miliardi di dollari. Giacerebbero al 2006 nelle sue riserve la bellezza di 5.250 miliardi di dollari che guarda caso, pur nella nostra approssimazione, corrispondono piu’ o meno all’ ammontare del debito pubblico statunitense nel 2006 che era a quota 4.900 miliardi di dollari. Ripetendo gli stessi calcoli con la Banca di Francia, la Bundesbank, la Banca d’ Italia come con qualsiasi altra banca centrale il risultato sarebbe identico: le riserve monetarie accumulate corrisponderebbero all’ incirca all’ ammontare del debito pubblico. E c’e’ una ragione. Infatti sebbene le banche centrali abbiano quattro tipologie di clienti (cioe’ compratori e venditori della merce che producono ossia il denaro) che sono le banche commerciali private, le altre banche centrali, lo stato e gli stati esteri per tutti esiste un’unica forma di pagamento ovvero titoli di stato meglio conosciuti (in Italia) come Buoni Ordinari del Tesoro o BOT e Certificati di Credito del Tesoro o CCT. I BOT e i CCT (chiamati “securities” in finanza) non sono altro che delle cambiali, dei paghero’, che lo stato che li emette si impegna ad onorare a una scadenza prestabilita (nel caso dell’ Italia 3, 6 e 12 mesi per i BOT e 7 anni per i CCT) con il denaro ricavato regolarmente dal gettito fiscale e (quando ce n’ e’ l’ opportunita’) con le privatizzazioni o la vendita di beni pubblici. Lo stato passa i suoi titoli di debito solo alla banca centrale ed e’ lei che decide se fare cassa subito e venderli sul mercato o tenerseli da parte e incassarli alla loro naturale scadenza. Lo stato dunque per comprare la merce (i soldi) che gli serve per pagare tutte le sue spese fa debiti su debiti con la propria banca centrale. Quindi il nostro debito pubblico non lo dobbiamo al signor Rossi o alla Anonima SPA ma esclusivamente alla nostra banca centrale d’ Italia o Europea che sia. In pratica gran parte delle tasse pagate dai cittadini va a finire nel caveau della banca centrale e li’ questi soldi rimangono senza piu’ essere toccati anche se continuano a essere conteggiati come denaro circolante tanto che se tornassero sul mercato non creerebbero alcuna inflazione (fanno gia' parte del cumulo di massa monetaria esistente). Se la banca e’ pubblica (come nel caso della Polonia) il meccanismo e’ semplicemente assurdo ma se la banca centrale e’ un’ azienda privata (come la Federal Reserve, la Banca d’ Italia, la Banca Centrale Europea) che vende dei normalissimi prodotti finiti perche’ sul ricavo della vendita dei bigliettoni non ci paga le tasse? E in entrambi i casi che se ne fa la banca di tutti quei soldi fermi e inutilizzati? Se lo e’ domandato anche il presidente champagne del Venezuela Hugo Chavez che si e’ accorto che mentre il suo paese e’ alla fame (il 35% dei venezuelani vive sotto la soglia di poverta’) nelle riserve del Banco Central de Venezuela giacciono immobilizzati 29 miliardi di dollari. Il progetto di Nixon e compari era dunque questo: far indebitare gli stati con le banche nazionali al fine di sottrarre denaro dal mercato per seppellirlo in una cassaforte. Perche’? Ma per lo stesso motivo per cui e’ nato l’ euro. (Fine seconda parte) Martedì 13 Marzo 2007 19:21 originale: http://www.viaroma100.net/notizia_trovata.php?id=9508 LA POLONIA E' PRONTA PER L' EURO? III PARTE Analisi economica dell' introduzione dell'euro, dal nostro inviato Giorgio Monteforti. Un'analisi che interessa l'intera Europa, non solo la Polonia. VARSAVIA - Aspettando l'euro in Polonia: LA LEGGE DELLA DOMANDA E DELL’ OFFERTA Se l’ inflazione cioe’ la perdita di valore (o l’apprezzamento e in questo caso si parla di deflazione) della moneta da sempre era dipeso dal rapporto tra la quantita’ d’oro posseduta dalla banca centrale e il numero e il valore nominale delle monete prodotte (con 1 kg d’oro e 1000 banconote da un dollaro il dollaro valeva 1 g d’oro, con il solito kilo d’oro e 2000 banconote da un dollaro il dollaro valeva 0,5 g d’oro) quando nel ’71 le monete furono sganciate dai metalli preziosi, cioe’ da certificati di possesso di una certa quantita’ d’oro (pagabili a vista al portatore voleva dire questo: pagabili in oro a chi le presenta) divennero pura merce di scambio, da che cosa gli economisti pensavano sarebbe dipeso il deprezzamento della moneta cioe’ l’inflazione? L’ unica cosa logica che si poteva ipotizzare era che le monete divenute comunissimi beni di consumo avrebbero acquistato o perduto valore in base alle esigenze e alle disponibilita’ del mercato ovvero in base alla celeberrima legge della domanda e dell’ offerta. La legge e’ cosi’ nota che la diamo ormai per scontata: piu’ una cosa e’ desiderata, piu’ e’ rara piu’ costa e viceversa. Prendiamo un quadro di Picasso. Il quadro ha un valore intrinseco cioe’ il costo dei materiali per realizzarlo (la tela, i colori, i pennelli) e il costo di produzione (il lavoro del pittore) e un valore estrinseco cioe’ l’ arte e lo status di possederlo. Questi fattori fanno il prezzo base dell’ opera, tutto quello che costa in piu’ dipende dalla quantita’ di quadri di Picasso acquistabili e il numero di soggetti interessati ad acquistarli. Per esempio se Sotheby’s mette all’ asta un Picasso e c’e’ un solo compratore interessato il battitore aggiudichera’ il quadro per la sola base d’ asta (il semplice valore intrinseco ed estrinseco). Ma se ci sono molti acquirenti scatta tra loro una gara al rialzo finche’ colui che fara’ l’ offerta piu’ alta (cioe’ colui che e’ disposto a spendere piu’ degli altri per quell’ oggetto) non vincera’ l’ asta. Nel 1995, da Christie’s (Londra), Sir Andrew Lloyd Webber si porto’ a casa il “ritratto di Angel Fernandez de Soto” (Picasso, 1903) per 28 milioni di dollari. Sembra semplice, una cosa naturale, una pratica che regola ogni aspetto della nostra esistenza. Davvero? E allora com’e’ che in Italia hanno raddoppiato il prezzo di una pizza margherita senza che si fosse ridotta l’ offerta (il numero di pizzerie) o senza che fosse aumentata la domanda (il numero di clienti)? Perche’ un idraulico ha un tariffario fisso indipendentemente dal rapporto tra gli idraulici in citta’ e le richieste di intervento? Perche’ un’ avvocato incompetente con pochi clienti chiede un onorario uguale o superiore a un famoso avvocato pieno zeppo di cause? Elementare. Perche’ la nostra vita non si basa sulla legge della domanda e dell’ offerta che si studia a Yale bensi’ sull’ equazione “ricavo – spesa = guadagno” che si impara alla scuola primaria. Non c’e’ bisogno di aggiungere che e’ cosi’ perche’ mentre tutti hanno una licenza di scuola elementare pochi hanno un master di Haward in Business and Financing. Vediamo la differenza in concreto. Ipotizziamo che ai mercati generali di Firenze (dove da universitario andavo a comprare il panino con la salsiccia che mangiavo per pranzo) ci sia un solo fruttivendolo che venda mele e che sul banco tenga 100 kg di mele che mette al kilo 1 dollaro. Il fruttarolo compra all’ ingrosso le sue mele per 0,5 dollari al kilo e spende per trasportarle 10 dollari di benzina. Ipotizziamo anche che l’ omino delle mele ogni giorno riesca a vendere tutti i suoi 100 kg in 8 ore di lavoro. A fine di ogni giornata il suo guadagno netto e’ di 40 dollari e ogni volta pensa “anche per oggi e’ andata”. Mettiamo che un giorno si presentino da lui e tutti insieme 1000 clienti e che tutti vogliano 1 kg delle sue mele. Il fruttivendolo se ha solo la licenza elementare vendera’ i 100 kg che ha sul banco ai primi 100 clienti e poi con altri 9 viaggi dal grossista, in 8 ore, accontentera’ tutti gli altri. Dunque quel giorno avra’ venduto 1000 kg di mele incassando 1000 dollari, spendendone 500 all’ ingrosso e 100 dal benzinaio con un guadagno netto di 400 dollari. L’ ometto a fine giornata pensera’ “mi sono fatto il mazzo ma oggi gli affari sono andati davvero bene”. Se invece il fruttivendolo ha studiato alla Bocconi e quindi si definisce sui suoi biglietti da visita “Fruit Sale Manager” di fronte ai 1000 clienti impazziti per le sue mele organizzera’ un’ asta. Base d’ asta 1 dollaro al kilo, quantita’ minima e massima acquistabile 1 kg, e rilancio minimo di 10 dollari. All’ inizio, siccome tutti vogliono le mele e c’e’ solo lui che le vende, tutti i clienti offrono 10 dollari al kilo e i suoi 100 kg toccano gia’ il valore di 1000 dollari. Per il fatto che non c’e’ modo di avere le mele per quella cifra 500 clienti lasciano l’ asta e gli altri 500 rilanciano di 10 dollari. Le mele adesso valgono 20 dollari al kg e il fruttivendolo si trova ad avere sul banco 2000 dollari di merce. Se ne vanno allora altri 300 clienti e i restanti 200 alzano l’ offerta di altri 10 facendo salire le mele a 30 dollari al kilo. Altri 100 rioffrono 10 mentre gli altri 100 se ne vanno. Aggiudicato per 40 dollari al kilo. Il fruttivendolo quel giorno incassera’ 4000 dollari spendendone 50 all’ ingrosso e 10 di benzina con un guadagno netto di 3960 dollari. Il tutto in un’ ora. L’ ometto alla fine della vendita pensera’ “se avessi avuto 2000 compratori avrei guadagnato piu’ del doppio. Devo farmi un po’ di pubblicita’”. Mica scemo. Con la pubblicita’ si incrementa il numero degli acquirenti mantenendo costante il numero di pezzi prodotti in modo da far lievitare il prezzo. A Berkley lo chiamano “marketing”. Quando politici e uomini d’ affari parlano di “libero mercato” o di “legge di mercato” non si riferiscono a quei mercati a cui noi prendiamo parte (dei beni al consumo, delle merci, del lavoro, delle case o degli affitti) dove si pensa secondo “ricavo – spesa = guadagno” bensi’ all’ unico mercato dove si applica “domanda e offerta” e cioe’ la Borsa Valori dove solo loro (politici e uomini d’affari) e le loro aziende sono ammessi. La differenza tra esageratamente ricchi (Tronchetti Provera ha un patrimonio stimato di 18,8 miliardi di dollari) ed esageratamente poveri (gli italiani hanno un patrimonio medio di 20.000 dollari) sta qui. Dunque se la legge della domanda e dell’ offerta si applica solo in borsa, dal 1971 le monete sono state soggette a questa legge solo per quello che delle monete si fa in borsa: il mercato dei cambi. Prima del mercato telematico, dei computer e della borsa aperta 24 ore funzionava cosi’. Intanto la parola “cambio” e’ da poveracci, i Fruit Sale Manager lo chiamano “fixing”. Nel corso della giornata borsistica, per le contrattazioni monetarie, si aprivano ad intervalli regolari delle finestre di 10 minuti (una per ogni moneta) e in quei 10 minuti compratori e venditori facevano incontrare la domanda con l’ offerta. A Piazza Affari per esempio il fixing della lira sul dollaro veniva stabilito tra le 13 e le 13,10. Per essere piu’ chiari, alle 13 si apriva il mercato del dollaro che altro non era se non un’ asta dove gli agenti di cambio (liberi professionisti che rappresentavano uno o piu’ clienti: banche, grandi aziende, gruppi finanziari) mettevano a confronto gli ordinativi (di vendita o di acquisto) dei loro clienti: alcuni vendevano dollari altri invece volevano comprarli. La base d’ asta era il fixing del giorno prima. Mettiamo che il fixing di apertura fosse di 1 dollaro = 1000 lire. Con 1000 dollari in vendita e 1 milione di lire di ordini d’ acquisto il valore di 1 dollaro rimaneva a 1000 lire, se gli ordini di acquisto erano 2 milioni di lire il dollaro balzava a 2000 lire, se erano di appena 500.000 lire il dollaro calava a 500 lire. Nel famoso venerdi’ nero della lira, il 18 luglio 1985, in quei 10 minuti successe il finimondo e il dollaro da 1840 lire passo’ a 2200 lire. Per un gioco perverso di fini e lucri diversi della Banca d’ Italia, di alcune Banche commerciali e di grossi gruppi industriali (i soliti noti, quelli che hanno accesso alla borsa) tutti coloro che quel giorno avevano transazioni in dollari pagarono il 25% in piu’ come l’ Alitalia (cioe’ noi, i soliti ignoti che a Piazza Affari non ci sappiamo neppure arrivare a piedi) che quel giorno per una rata in scadenza sborso’ 5 miliardi in piu’ oppure l’ ENI (sempre noi) che pago’ una partita di petrolio 35 miliardi in piu’. Sebbene dunque la lira, per la legge della domanda e dell’ offerta, quel giorno valesse ¼ meno sul dollaro rispetto al giorno prima non e’ che mia nonna il 18 luglio 1985 alle 13,41 (il fixing quel giorno si apri’ stranamente con 30 minuti di ritardo) entro’ dal panettiere e pago’ un filone di pane il 25% in piu’ oppure ando’ dal parrucchiere e pago’ una messa in piega di 10 mila lire piu’ cara. Certo nel corso delle settimane i maggiori costi sostenuti dalle aziende per le loro transazioni in dollari furono spalmati sul costo dei loro prodotti e servizi e quindi i prezzi salirono ma solo incidentalmente rispetto agli andamenti dei mercati finanziari. Se non era la borsa, il cambio, il fruttivendolo, la domanda e l’ offerta ma allora cosa determinava (e determina ancora oggi) l’ inflazione che oltretutto in Italia tra il 1974 e il 1981 si aggirava sul 19% annuo? I PARAMETRI DELL’ EURO: IL TUS, IL PIN E IL PIL Dal 1971 le banche centrali non sono piu’ semplici custodi e garanti della copertura in oro della moneta ma aziende bancarie che vendono quantita’ di denaro ai propri clienti (stati e banche) in cambio di titoli di stato. I titoli di stato sono delle cambiali che lo stato si impegna a pagare a una certa data con i soldi che ricavera’ dal gettito fiscale. La banca centrale accetta in pagamento per la sua merce (banconote e spiccioli) solo queste cambiali ricaricandoci una certa percentuale di guadagno chiamata TUS o Tasso Ufficiale di Sconto. Ma se e’ un ricarico perche’ lo chiamano sconto? Tutti coloro che devono riscuotere una cambiale possono fare in due modi. O dormire sul pianerottolo del debitore finche’ questo non saldi il suo debito oppure recarsi presso l’ ufficio Factoring della propria banca. Factoring e’ un modo fico per dire recupero crediti (come Spices Sale Manager per dire pizzicagnolo) e infatti l’ ufficio factoring si occupa proprio di incassare i debiti insoluti. Il cliente creditore (colui che deve riavere dei soldi) porta al factoring una cambiale o un qualsiasi tipo di titolo di debito nei suoi confronti e la banca, calcolando la situazione finanziaria del debitore (colui che deve restituire dei soldi), la sconta, liquida il cliente creditore e diventa lei legittima proprietaria di quel credito che poi provvedera’ a mandare all’ incasso. Mi spiego. Il signor Rossi ha ricevuto dal Sig. Bianchi una cambiale da 1000 lire con scadenza 3 mesi. Ma il Sig. Rossi ha bisogno subito di soldi e allora si reca presso l’ ufficio factoring della sua banca. La banca fa le appropriate indagini sulla situazione patrimoniale del sig. Bianchi e, vedendo che non si trova in buone acque e quindi essendo alto il rischio di non incassare quei soldi tra 3 mesi, propone al Sig. Rossi uno sconto del 50% cioe’ la banca a Rossi liquidera’ subito 500 lire e lui in cambio girera’ la proprieta’ della cambiale alla banca che recuperera’ le 1000 lire da Bianchi in seguito. La banca centrale ragiona esattamente nello stesso modo. Se lo stato ha bisogno di 1000 lire, si reca a comprarle presso la banca centrale con un titolo di stato da 1000 lire. Fatti i dovuti accertamenti la banca lo accetta scontandolo mettiamo del 20%. Questo vuol dire che lo stato in cambio di quel bond da 1000 lire riceve 800 lire in contanti, cede alla banca la proprieta’ di quel titolo, e la banca incassera’ le 1000 lire o a scadenza oppure rivendendo a terzi quel bond. Quando infatti si compra un BOT o un CCT o un BTP al 2% in linea di massima non e’ che lo si paghi 100 e a scadenza si riceva 102 ma lo si paga 98 e a scadenza si ha 100. Dunque il TUS e’ il rischio che la banca centrale accetta di correre nell’ accettare una cambiale dello stato, rischio dovuto alla situazione finanziaria e patrimoniale dello stato. Ma come la banca determina quanto lo stato e’ solvibile cioe’ quanto e’ affidabile nel pagare le cambiali che emette? Viene subito da pensare che la banca centrale faccia come tutte le banche commerciali quando qualcuno si presenta da loro per chiedere un prestito o un mutuo: farsi presentare le dichiarazioni dei redditi (o i bilanci consuntivi per una societa’) degli ultimi anni e siccome lo stato firma cambiali anche a 30 anni (BTP) ci si aspetterebbe che la banca richieda di analizzare i conti dello stato in un arco di tempo di alcuni anni indietro. Peccato che un bilancio (consuntivo) dello stato non esista. Non scherzo: non siamo in grado di sapere quanto lo stato (l’ insieme delle istituzioni pubbliche) incassi e spenda ogni anno. E la legge di bilancio? E la finanziaria? Le due leggi non sono il bilancio dello stato ne’ preventivo ne’ consuntivo. La prima e’ una legge che indica come e quanto lo stato pensa di incassare e di spendere in base alle leggi vigenti. La seconda e’ uguale solo che ha il potere di modificare direttamente alcune leggi esistenti in modo da permettere al governo di stare piu’ comodo nelle previsioni ed avere la possibilita’ di rispettarle. In pratica le due leggi, ma soprattutto la finanziaria, sono semplicemente un’ indicazione di chi verra’ finanziato e quanto (contributi e stanziamenti) e di chi non verra’ finanziato e di quanto (tagli e imposte). Non sono un bilancio ne’ dicono assolutamente nulla su dove lo stato prendera’ i soldi e cioe’ quanti gliene rientreranno con le tasse e quanti invece dovra’ acquistarne dalla banca centrale. Tanto meno dicono quanto lo stato ha incassato e speso l’ anno precedente. Chi ricontrolla le spese consuntive dello stato c’e’ ed e’ la Corte dei Conti. Ma la Corte con le sue 21 sedi regionali (di almeno 3 sezioni ciascuna, nel Lazio 10) analizza i bilanci ente pubblico per ente pubblico in una galassia complicatissima che va dai ministeri, alle regioni, ai comuni, alle sovrintendenze, alle comunita’ montane fino alle piu’ minuscole frazioni dello stato. Una mole di dati cosi’ caotica e complessa che neppure la Ragioneria Generale dello Stato e’ in grado di dire quanto al 31 di dicembre di ogni anno lo stato nel suo insieme abbia incassato e abbia speso. In questo marasma la banca centrale e’ costretta a fare affidamento non su leggi, decreti, bilanci, sentenze, atti ufficiali ma solo e semplicemente sulla logica e la statistica. La capacita’ che ha un soggetto di pagare i propri debiti e’ esclusivamente collegata alle entrate di questo soggetto. Se io al mese guadagno 1 milione di euro in 10 mesi posso ripagare un prestito di 10 milioni di euro ma se guadagno 100 euro al mese 10 milioni di euro non li posso ripagare in tutta una vita. Per lo stato e’ lo stesso, le sue possibilita’ di saldo derivano solo ed esclusivamente dalle sue entrate cioe’ dalle imposte. E l’ ammontare del gettito fiscale dipende dal valore dei beni e dei servizi prodotti dai suoi cittadini vale a dire dal suo Prodotto Interno. Infatti maggiore e’ il valore del Prodotto Interno di un paese e maggiori saranno le entrate dello stato. Non a caso le tasse sono tutte in percentuale. Se in un anno guadagno 100 euro e pago imposte per il 40% lo stato incassera’ da me 40 euro, se invece l’ anno dopo ne guadagno 1000 alla solita aliquota del 40% lo stato se ne mettera’ in saccoccia 400. Il Prodotto Interno si calcola in due modi: al netto e al lordo. Il PIN (Prodotto Interno Netto) e’ l’ ammontare totale dei beni e dei servizi prodotti da un certo paese in un certo momento ed e’ netto perche’ nella sua determinazione non si considerano gli investimenti fatti per aumentare la produzione che sono incorporati invece nel PIL (Prodotto Interno Lordo) che e’ una proiezione economica non immediata ma a medio-lungo termine. Una serie di calcoli fatti sul PIN serve per determinare la solvibilita’ dei BOT (titoli a breve scadenza) mentre una serie di valutazioni sul PIL per i CCT e i BTP (titoli a lunga scadenza). L’ inflazione (eccoci al dunque) e’ il risultato del rapporto tra il totale dei debiti contratti dallo stato (a breve o a lungo termine) per acquistare moneta e la capacita’ di onorarli che a sua volta dipende dalla produttivita’ dei suoi cittadini (PIN e PIL) e dunque dalla quantita’ di soldi che attraverso le tasse lo stato e’ in grado di guadagnare. L’ inflazione al 21,14 per cento del 1980 era conseguenza di una politica economica per cui lo stato comprava troppa moneta indebitandosi (con la sua stessa banca centrale) molto di piu’ di quanto fosse in grado di restituire ossia di molto al di sopra delle capacita’ produttive e/o fiscali del paese. Questa e’ l’ inflazione: la quantita’ di moneta acquistata da uno stato in relazione alle capacita’ produttive dei cittadini di questo stato cioe’ il Prodotto Interno netto o lordo che sia. L’ inflazione (dal ’71) non c’entra nulla con l’ aumento dei prezzi anzi la crescita del costo della vita corrisponde a un incremento del PIL e dunque a maggiori entrate fiscali cosi’ che l’ inflazione invece di salire si riduce! Ancora ci domandiamo perche’ il legislatore non ha detto nulla della truffaldina conversione lira-euro dove una margherita costava 6000 lire e oggi costa 6 euro (che di mila lire sono 12)? L’ IVA sulle pizze consumate sul posto e’ al 7,6% (il take away al 2,4%) dunque nel 2000 lo stato da una margherita ricavava 20 centesimi (456 lire) oggi 45 centesimi. Senza contare il raddoppiato reddito della pizzeria che versera’ a fine anno un ammontare doppio di tasse. Se il PIL non cresce e quindi lo stato fallisce nel raccogliere una certa quantita’ di tasse, per soddisfare i suoi bisogni monetari e’ costretto ad andare di nuovo alla banca centrale a comprare denaro in piu’ indebitandosi ancora. Come quando nel settembre 2003 Berlusconi si trovo’ con 10 miliardi di entrate fiscali in meno rispetto a quelle che aveva previsto di raccogliere e fu costretto nel 2004 a fare il diavolo a quattro in Europa perche’ lo autorizzassero ad aumentare il debito pubblico (i titoli di stato emessi per comprare euro alla BCE) sforando i limiti consentiti dagli accordi di Maastricht che impongono di mantenere un rapporto tra debito pubblico e PIL (cioe’ tra le cambiali dello stato per comprare moneta e la capacita’ di ripagarle) non superiore al 3% in modo tale che l’ inflazione (la solvibilita’ dello stato) si attesti intorno al 2%. Tutto cio’ significa solo una cosa. Il sistema economico che si e’ consolidato dal 1914 a oggi funziona come segue. Piu’ lavoriamo piu’ produciamo, piu’ produciamo piu’ consumiamo, ma piu’ consumiamo piu’ lavoriamo e il PIL si alza. Ad un PIL piu’ elevato corrisponde un maggiore gettito fiscale che riduce la necessita’ dello stato di indebitarsi con la banca centrale per comprare i soldi di cui ha bisogno. Siccome ogni volta che lo stato acquista dei soldi non solo si indebita ma una volta saldati i debiti quei soldi spariscono di circolazione (dalle nostre tasche) e finiscono nelle riserve della banca centrale, per evitare di impoverirci (cioe’ che la banca centrale si impossessi di moneta) dobbiamo portare al massimo la nostra attivita’ lavorativa. Il nostro extralavorare ci ipoteca la vita e non ce la migliora ma alza il PIL e dunque allevia l’ indebitamento dello stato (come a dire il nostro) ma sopratutto aumenta il profitto degli uomini d’ affari (se un operaio produce 10 pezzi all’ ora o 20 all’ ora, il suo stipendio rimane uguale ma il guadagno dell’ azienda raddoppia) e da’ un po’ di respiro agli uomini di potere (se lavoriamo tutto il giorno non abbiamo tempo, forza e voglia di contestare per esempio il fatto che i parlamentari tra il 2003 e il 2005 hanno “adeguato” la loro “indennita’” del 20%). Fantasie? Non direi. Quando l’ allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi il 28 luglio 2005 al Consiglio Nazionale di Forza Italia dichiaro’ “gli Italiani sono ricchi ma lavorano poco” economisti e politici di fama internazionale (per lo piu’ americani ma non solo) si affrettarono a dichiarare a giornali anche molto quotati che il premier italiano aveva assolutamente ragione. Piu’ recentemente, il 12 febbraio scorso, il presidente della repubblica Giorgio Napolitano (che non e’ certo di destra) di fronte alle proteste popolari contro decisioni prese dalla politica (sia di destra che di sinistra) non ha esitato a dire che le "manifestazioni di massa sono legittime e importanti" ma è "fuorviante" considerarle il "sale della democrazia" perché la "sede della decisione democratica è nelle istituzioni". RICAPITOLANDO Nel 1914 l’ America e tutti i paesi industrializzati sono teatro di dure e spesso violente proteste da parte delle classi popolari e piccolo borghesi contro i datori di lavoro per ottenere migliori condizioni salariali e di vita. Henry Ford e i colleghi industriali rispondono a questi sommovimenti con il fordismo ossia con lo spingere la gente ai consumi in modo che si inneschi una corsa al possesso e all’ indebitamento che costringa le persone a lavorare sempre di piu’ e a protestare sempre meno. Nel 1971 in America, in Francia, in Inghilterra, in Italia e in moltissimi altri paesi e’ al massimo della sua virulenza la rivolta giovanile e universitaria che si salda a quella sociale e lavorativa delle minoranze (i neri in USA) e delle working class (operai e impiegati di basso livello) stavolta contro i politici. Nixon e colleghi politicanti pensano di soffocare i disordini indebitando lo stato con la banca centrale in modo da far circolare sempre meno denaro e quindi costringere la gente a lavorare sempre piu’ e a protestare sempre meno. Nel 1980 l’ Italia e’ rimasto l’ unico paese del blocco occidentale a non aver risolto i disordini interni. Il terrorismo eversivo (di destra e di sinistra) continua a fare centinaia di vittime tra bombe e sparatorie, i giovani continuano imperterriti a manifestare e a organizzarsi in comitati politici, intere categorie lavorative continuano a protestare e scioperare. Politici e industriali nel tentativo di allentare le pressioni sociali spingono l’ indebitamento pubblico e quindi l’ inflazione a cifre folli costringendo la gente a lavorare sempre di piu’ e a protestare sempre meno. Nel 1988 l’ Europa della CEE si trova a fronteggiare il crollo del comunismo. Sul fronte esterno la fine dell’ Unione Sovietica e del Patto di Varsavia avrebbe significato 400 milioni di nuovi europei (Russia compresa) infarciti di decenni di socialismo e di assistenzialismo che avrebbero potuto essere una minaccia per la stabilita’ produttiva ed economica del continente (colpendo il profitto) ma anche 400 milioni di cervelli in piu’ che avrebbero potuto rafforzare l’ opposizione popolare con inevitabili terremoti politici e sociali (colpendo il potere). Sul fronte interno, sparito lo spauracchio dello stalinismo (bambini divorati, proprieta’ privata confiscata, consumi aboliti), i poveri e gli un po’ meno poveri (lavoratori e impiegati) avrebbero potuto coalizzarsi mettendo a repentaglio il potere e il profitto della classe dirigente chiedendo maggiore democrazia ai politici (onesta’, trasparenza, informazione, ampia partecipazione popolare) e piu’ giuste condizioni di vita ai datori di lavoro (stipendi adeguati, piu’ tempo libero, prezzi contenuti, rispetto ecologico, etica del lavoro). Serviva dunque un mezzo per costringere la gente a lavorare sempre piu’ e a protestare sempre meno: l’ Euro. Lunedì 2 Aprile 2007 11:20 originale: http://www.viaroma100.net/notizia_trovata.php?id=9734 LA POLONIA E' PRONTA PER L' EURO? IV PARTE Quarta parte dell'analisi economica sull'introduzione dell'euro, dal nostro inviato Giorgio Monteforti. Un'analisi che interessa l'intera Europa, non solo la Polonia. VARSAVIA (POLONIA) - L’EURO ALLE GRANDI MANOVRE Se un giorno qualcuno dei nostri figli ci domandasse “Mamma o papa’, cos’era l’ ECU?” tutti noi risponderemmo “una moneta virtuale, figliolo, il fratello maggiore dell’ Euro”. Logico in ECU ci si facevano i mutui quindi doveva essere per forza una moneta, nel 1999 fu stabilito che l’ ECU sarebbe stato cambiato a 1 euro quindi doveva essere per forza una moneta, e poi la E sta per European e C per Currency (moneta) quindi doveva essere per forza una moneta. Sbagliato. L’ ECU era soltanto una unita’ di misura e infatti la U stava per Unit: European Currency Unit o unita’ di misura monetaria europea. Non ci si comprava ne’ ci si vendeva un bel niente. L’ ECU, creato il 5 dicembre del 1978 e introdotto il 13 marzo 1979, era un modo semplice di calcolare il PIL dell’ allora Comunita’ Europea e quindi serviva per semplificare i conti delle banche centrali. L’ ECU era una unita’ di misura affidabile perche’ si basava sullo SME o Sistema Monetario Europeo cioe’ un accordo che gli stati europei avevano sottoscritto per mantenere stabile il cambio tra le loro monete che poteva oscillare in piu’ o in meno fino a un massimo del 2,25%. Quindi i calcoli statistici, perche’ il calcolo del PIL e’ pura statistica, risultavano molto accurati e con lievissimi scarti di errore. Siccome pero’ l’ECU a tutti gli effetti sembrava una moneta perche’ ci si misuravano valori economici (una mela poteva costare mille lire, o un marco, o un fiorino oppure valere 1 ECU) e siccome nel calcolo del valore dell’ ECU Francia e Germania da sole rappresentavano piu’ del 50% si comincio’ a semplificare per l’ opinione pubblica dicendo che l’ ECU era una valuta virtuale ancorata al Marco a sua volta legato con un cambio fisso al Franco francese, detto con un calembour (gioco di parole) franco-forte. Proprio la confusione e le mistificazioni sul tema permisero nel 1987 al ministro delle finanze francese Edouard Balladur di simulare un bisticcio con la Bundesbank su una questione di cambi tra marco e dollaro e di chiedere a gran voce una moneta unica dichiarando “il Sistema Monetario Europeo dovrebbe emanciparsi dalle influenze di paesi con politiche monetarie restrittive” e subito il ministro degli esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher (dietro al quale si nascondeva il cancelliere Kohl) si dichiaro’ d’ accordo. Successivamente Roland Dumas, ministro degli esteri francese, e Genscher si dettero appuntamento per un incontro bilaterale i contenuti del quale furono resi noti il 26 febbraio 1988 con la pubblicazione di Gensher dal titolo Memorandum on the Creation of a European Monetary Area and a European Central Bank. Pochi mesi dopo al vertice europeo di Hanover il 27–28 giugno venne deciso di costituire il comitato Delors che avrebbe dovuto sondare le possibilita’ di creare una moneta e una banca centrale Europea. Delors e i suoi finirono i lavori in meno di un anno e nell’ aprile del 1989 il rapporto del comitato era gia’ pronto. La relazione Delors venne ufficialmente presentata al summit europeo di Madrid nel giugno dello stesso anno che senza neanche esaminarlo e discuterlo a fondo lo adotto’ in blocco come il nuovo vangelo dell’economia europea. La Commissione Europea (presieduta anch’ essa da Delors) nel 1990 pubblico’ One Money, One Market per propagandare la necessita’ di una riforma monetaria e il 2 febbraio 1992 con il Trattato di Maastricht l’ Euro divenne una realta’ politica e finanziaria. Dunque in appena 4 anni la moneta unica, una delle piu’ complicate e controverse operazioni economiche di tutti i tempi, da un’ idea di Francia e Germania divento’ un’ istituzione. Perche’ Francia e Germania e perche’ tanta fretta? Nel 1981 in Francia venne eletto presidente il socialista Francoise Mitterand detto il “monarca rosso” per le sue idee profondamente democratiche e sociali che sfociavano quasi nel giacobinismo tant’e’ che il suo motto preferito era “la Francia ha condannato gli uomini a vivere liberi”. I poteri forti francesi, minacciati negli interessi e ridimensionati nel profitto, riuscirono nel 1986 a far eleggere primo ministro il conservatore Jacques Chirac (sotto cui ha servito Balladur) in modo da arginare l’ operato del presidente libertario. Cosi’ libertario da pestare i piedi anche alla Germania dichiarandosi contrario alla riunificazione o meglio alla capitalistizzazione alla tedesca della Germania Est. Mitterand proponeva una riunificazione economica e politica graduale che permettesse ai tedeschi dell’ est di abituarsi lentamente allo shock sociale ed economico che la fine del regime comunista avrebbe significato. Non a caso nel dicembre del 1989 Mitterand, dopo essersi incontrato a Kiev con Gorbatchev, si reco’ in visita ufficiale al moribondo governo della Germania Est per riaffermare la sua legittimita’ mandando su tutte le furie l’ establishment della Germania Ovest. Mitterand insomma sia in Francia che in Germania comprometteva l’autorita’ e i guadagni delle elites politico-finanziarie e rappresentava per quelle europee il piu’ grosso ostacolo alla conquista e alla colonizzazione commerciale dei paesi dell’ex blocco sovietico che, come oggi i paesi dell’Asia o dell’America Latina, erano allora pronti a svendersi a chiunque garantisse loro un modello di vita come quello dell’ex blocco americano. Guarda caso queste garanzie ai paesi del morente patto di Varsavia in gran parte le garantivano proprio Francia e Germania le cui aziende oggi controllano direttamente il 40% circa dei mercati dell’ Europa centrale e orientale. Bisognava dunque fare in fretta a trovare un modo per imbrigliare il presidente francese e le sue idee troppo progressiste che costituivano un pericoloso precedente e bisognava fare in fretta a rendere operativo il nuovo ordine continentale per impedire che la comunita’ scientifica, l’opinione pubblica e tutti i cittadini si rendessero conto delle manovre che venivano ordite alle loro spalle. I DEMIURGHI DELL’ EURO: IL COMITATO DELORS David Cameron, professore di Scienze Politiche all’ Universita’ di Toronto ma che a lungo ha insegnato a Yale e a Harvard ha scritto sull’argomento: “gli attori transnazionali [del potere e del profitto n.d.r.] e le loro politiche erano presenti e influenti in tema di unificazione monetaria europea fin dal primo meeting del comitato Delors […] e in certi casi e in certi momenti sono stati perfino piu’ determinanti delle istituzioni governative”. Il comitato Delors, che tra il giugno 1988 e l’ aprile 1989 si riuni’ 8 volte, era avvolto dalla massima riservatezza e dall’assoluto riserbo. Amy Verdun, professor ed economista canadese nonche’ una delle massime autorita’ accademiche in tema di euro, in una sua pubblicazione (divenuta un classico della letteratura economica) dal titolo “Governing by Commettee: the case of monetary policy” dice che “i membri del comitato si conoscevano a vicenda, ed erano perfettamente coscienti delle rispettive differenze di carattere come delle diverse situazioni politiche dei paesi che rappresentavano. La fiducia e la confidenza reciproca, unite al senso di appartenenza creavano un clima da old boys club” come fu poi confermato nell’ ottobre del 1996 durante una sua intervista (coperta da anonimato) a uno di loro. E allora vediamoli questi Old Boys: Jacques Delors (francese, ex premier, ex ministro delle finanze e per 9 anni presidente della commissione europea), Frans Andriessen (olandese, politico conservatore ed ex ministro delle finanze), Miguel Boyer (spagnolo, banchiere ed ex ministro dell’economia), Demitrius J. Chalikias (greco, governatore della Banca di Grecia), Carlo Azeglio Ciampi (italiano, governatore di Bankitalia poi premier e presidente della repubblica), Maurice F. Doyle (irlandese, presidente della Bank of Ireland), barone Alexandre Lamfalussy (belga, banchiere e presidente della BIS o Bank of International Settlement: la banca delle banche centrali), barone Jean Godeaux (belga, banchiere, ex BIS), Willem F. Duisenberg (olandese, ex banchiere, ex ministro delle finanze, ex BIS, direttore della Banca Centrale Olandese poi primo governatore della BCE), Erik Hoffmeyer (danese, governatore della Banca di Danimarca), Pierre Jaans (lussemburghese, direttore dell’ Istituto Monetario del Lussemburgo), Jacques de Larosière (francese, banchiere, ex direttore del Comitato Strategico del Tesoro francese, ex direttore del Fondo Monetario Internazionale), Robert Leigh-Pemberton barone di Kingsdown (inglese, banchiere, membro della Camera dei Lords, governatore della Banca d’ Inghilterra, ex BIS), Karl Otto Pöhl (tedesco, ex ministro delle finanze e governatore della Bundesbank), Mariano Rubio (spagnolo, governatore del Banco de Espana, nel 1992 fu accusato di concorso in diversi reati finanziari legati al “caso Ibercorp”) José A.V. Tavares Moreira (portoghese, banchiere, ex segretario del tesoro, governatore del Banco de Portugal), Niels Thygesen (danese, professore di economia), Gunter D. Baer (tedesco, banchiere, amministratore BIS), Tommaso Padoa-Schioppa (italiano, banchiere, ex presidente CONSOB). Questi sono i signori (titoli e curriculum parlano da soli) che, per dirla con Maria Green Cowles e Michael Smith dell’ Universita’ di Oxford, hanno creato “un vero paradosso […] che espone la banca centrale europea e l’ euro alla mancanza di un contesto di legittimita’ democratica e che crea un potenziale e fortemente problematico contrasto tra governanti e governati. [Un paradosso che] e’ servito per dare maggiore potere alle elites dominanti. […] I motivi che hanno ispirato l’ euro hanno piu’ a che fare col rafforzare gli esecutivi e vincolare i processi politici piuttosto che con la democrazia, la responsabilita’ civile, la trasparenza, la partecipazione e l’ identita’ popolare. […] L’ euro e’ finito per essere un tema interelitario che ha completamente escluso il cittadino-elettore che e’ poi colui che maggiormente subisce la politica e le politiche dell’ euro”. Capito? Se la cantano e sa la suonano da soli. Loro li creano, loro li distruggono. LA MAMMA DELL’ EURO: LA BANCA CENTRALE EUROPEA Tutto l’ impianto monetario dell’ Euro fa riferimento alla BCE o Banca Centrale Europea che ha sede a Francoforte (ma guarda un po’) e alle 12 banche centrali degli stati di Eurolandia. La BCE e’ guidata da un presidente e da un consiglio direttivo di sei membri che, insieme ai 12 governatori delle banche centrali, costituisce il Governing Council della banca cioe’ l’ organo decisionale piu’ potente in Europa in tema di economia e politiche economiche. La Banca Centrale Europea assomiglia in modo impressionante, tanto da sembrarne la fotocopia, alla Federal Reserve Bank americana. Anche la FED ha un consiglio direttivo di 7 membri che insieme ai governatori delle 12 sedi federali della Federal Reserve costituisce il Governing Council della banca. Con una piccola differenza pero’. Mentre negli Stati Uniti sia il governatore della banca centrale che i membri del consiglio direttivo sono nominati dal presidente e confermati da senato, quindi sotto controllo dei cittadini, in Europa sia il presidente della BCE, sia i 6 del consiglio sia gran parte dei governatori delle banche centrali si autonominano senza che nessun organo democraticamente eletto possa mettere bocca sul loro operato. La ragione e’ chiara. La BCE e’ nata per essere il braccio operativo dei grandi interessi economici e politici delle lobby affaristiche europee e la sua totale indipendenza garantisce che nessun politico, partito, movimento scalfisca il profitto dei poteri forti. Se un nuovo Mitterand prendesse il potere per quanto si possa sforzare di alleviare le condizioni economiche dei cittadini che lo hanno eletto si troverebbe davanti le misure restrittive della BCE che renderebbero vano ogni suo tentativo. Facciamo un esempio. Se un premier volesse ridurre le tasse per dare piu’ respiro alle famiglie rendendole piu’ libere dal lavoro la BCE potrebbe ritoccare una serie di tassi (il Tasso Ufficiale di Sconto e’ stato sostituito da ben 3 tassi differenti chiamati collettivamente Tasso Ufficiale di Riferimento della Politica Monetaria) in modo da far alzare i prezzi e gli interessi sui mutui e sui prestiti inghiottendo nuovamente il denaro fiscalmente risparmiato dunque facendo sparire con altri mezzi i soldi dalle tasche della gente costringendola a lavorare ancora di piu’. Non mi invento niente, sta tutto scritto nel Trattato di Maastricht. Stando a quanto sottoscritto dai nostri politicanti la BCE ha due obiettivi: la stabilita’ dei prezzi e alti livelli di occupazione. Ma attenzione al diplomatichese. Non vuol dire che la banca deve fare di tutto per mantenere bassi i prezzi e aumentare i posti di lavoro bensi’ che e’ competenza della Banca stabilire l’ andamento dei prezzi e fare in modo che la quantita’ di lavoro (non i posti di lavoro) cioe’ le ore lavorate e l’ intensita’ del lavoro alias il rapporto tra lavoro e profitto sia la piu’ alta possibile. Infatti e’ la BCE che controlla direttamente l’ Harmonized Index of Consumer Prices (HICP) o Indice Armonizzato dei Prezzi al Consumo cioe’ quanto costa un pacco di spaghetti, un’ auto, una casa. Questo perche’ i prezzi dei beni e dei servizi dipendono dal costo delle materie prime (fortemente influenzati dalla BCE), dal carico fiscale (direttamente deciso dalla BCE attraverso il signoraggio cioe’ la vendita di moneta in cambio di debito pubblico con un ricarico a favore della banca fino al 60% come da accordi), e l’ accesso al credito e i suoi costi cioe' i mutui e i fidi bancari (di esclusiva competenza della BCE). E’ vero che negli accordi sta scritto che la banca si deve impegnare a mantenere la crescita di questo indice non superiore al 2% (cioe’ gli spaghetti in un anno possono aumentare di prezzo fino a un massimo del 2%) ma sta anche scritto che la banca, forzata da eventi esterni che non dipendono dalla sua volonta’, puo’ sforare di quanto vuole la barriera del 2%. Uno sciopero, una manifestazione, gli scontri durante un G8, qualsiasi cosa potrebbe autorizzare la BCE a far schizzare i prezzi. Questo vuol dire che appena facciamo un po’ di casino contro qualcuno dell’ elite (i politici) o ci azzardiamo a protestare contro gli interessi delle elites (i grandi gruppi economici) ci ritroviamo di colpo piu’ poveri e siamo costretti a chiudere la bocca. Eppure in teoria “coloro che […] si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per […] acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali” secondo l’ articolo 416 bis del Codice Penale Italiano sono imputabili di “Associazione per Delinquere di Stampo Mafioso”. I BARONI DELL’ EURO Com’ e’ possibile che in appena 8 incontri il comitato Delors abbia potuto mettere in piedi un cosi’ complesso sistema politico ed economico mascherato da nuovo riassetto monetario? La risposta sta tutta in una sigla: BIZ o Bank für Internationalen Zahlungsausgleich meglio conosciuta come BIS o Bank for International Settlements l’ istituzione finanziaria piu’ potente del pianeta con sede a Basilea in Svizzera. Mai sentita dire? Per forza, senno’ non sarebbe la piu’ potente. La BIS fu voluta nel 1930 da Hjalmar Horace Greeley Schacht, poi ministro nazista dell’ economia, ufficialmente per incassare le riparazioni di guerra della Germania dopo la prima guerra mondiale. In realta’ doveva essere la banca d’affari che, al di sopra di ogni legge nazionale o trattato internazionale, si sarebbe dovuta occupare di tutte le transazioni finanziarie sporche tra i paesi europei e con gli Stati Uniti. Attraverso la BIS le banche e le multinazionali americane (come la Chase Manhattan Bank e la Standard Oil) facevano affari con la Germania di Hitler, il Reich aveva accreditati alla BIS 85 milioni di franchi svizzeri oro che sono misteriosamente spariti finita la guerra, e la BIS e’ anche sospettata di essere la banca che ha riciclato l’ oro trafugato dai nazisti durante le occupazioni di Austria, Cecoslovacchia, Olanda e Belgio e di cui si sono perse le tracce. Oggi e’ la banca delle banche centrali, una sorta di Mediobanca o meglio di Cupola (stando al 416 bis) dell’ intero sistema economico globale che supervisiona e gestisce il 95% della massa monetaria mondiale e ne ha direttamente in deposito il 7%. La BIS controlla il Fondo Monetario Internazionale (quello che ha portato al crack argentino e al collasso l’ America Latina), controlla la Banca Mondiale (quella che ha ipotecato l’ Africa ed e’ all’ origine delle guerre civili e dei massacri del continente), e sempre la BIS ha guidato il processo di indebitamento pubblico degli stati e organizzato i nuovi sistemi economici dei paesi ex comunisti perche’ si indebitassero anche loro. La BIS ha suggerito a Nixon nel ’71 di sganciare il valore del dollaro dai metalli preziosi per far cessare in America come altrove le rivolte giovanili e le rivendicazioni sociali. Goldfinger avrebbe dovuto mettere la sua bomba a Basilea non a Fort Knox per far crollare il sistema monetario capitalista, perche’ proprio l' intervento della BIS permise a Nixon e agli altri governanti di cambiare radicalmente da un giorno all’ altro l’ intero sistema finanziario mondiale senza alcuna conseguenza diretta sull' economia. La BIS infine e’ stata l’ ideatrice e l’ organizzatrice dell’ intero impianto dell’ euro tanto che tutti gli incontri del comitato Delors si sono tenuti a Basilea negli uffici della banca e del comitato facevano parte il presidente della BIS (il barone Alexandre Lamfalussy), un suo funzionario (Gunter D. Baer) e tre suoi ex amministratori (il barone Jean Godeaux, il barone Robert Leigh-Pemberton e Willem F. Duisenberg poi primo presidente della BCE). Da notare che la BIS e’ una banca privata e non ha mai reso pubblica la lista dei suoi azionisti. Insomma sappiamo dove mandare i ringraziamenti (Centralbahnplatz 2, CH-4002 Basilea, Svizzera) ma non sappiamo proprio chi ringraziare. Giorgio Monteforti Domenica 8 Aprile 2007 08:58 originale: http://www.viaroma100.net/notizia_trovata.php?id=9810 LA POLONIA E' PRONTA PER L' EURO? V PARTE La quinta e ultima parte dell'inchiesta del nostro inviato Giorgio Monteforti, che, partendo dalla Polonia arriva ora in Italia, dove l'euro, per molti, è ancora indigesto. VARSAVIA (POLONIA) - Si conclude il reportage sulla nascita dell'euro, un'analisi in cinque puntate che "senza peli sulla lingua" ha analizzato la nascita dell'euro ed il ruolo di tanti "potenti", incensati dai media... ma non da noi. I PARAMETRI DI MAASTRICHT Dal 7 febbraio 1992, data della firma del Trattato di Maastricht, politici, imprenditori, banche e media cominciarono a bombardarci con i famosi parametri. I parametri qui, i parametri la’, dobbiamo attenerci ai parametri, questo e’ fuori dai parametri, i parametri non ce lo consentono, se non facciamo questo o quello non rientreremo nei parametri e cosi’ via come se fosse questione di vita o di morte. Quando in pompa magna i politici uscirono dall’aula del summit con in mano il documento firmato cominciarono a sparare in 10 lingue che per fare l’Europa era necessario che il tasso medio di inflazione, misurato sui prezzi al consumo, non dovesse superare gli 1,5 punti di quello dei tre Stati con i migliori risultati ma allo stesso tempo era assolutamente indispensabile che il tasso di interesse a lungo termine non superasse di oltre 2 punti quello dei suddetti paesi sempre che il cambio tra le monete europee rispettasse i margini di fluttuazione dello SME per almeno due anni prima della verifica tenendo comunque presente che il rapporto tra disavanzo e PIL non avrebbe dovuto superare il 3%, o, se superiore, avrebbe dovuto essere diminuito fino a raggiungere un livello che si avvicinasse al 3%, mantenendo il rapporto debito/PIL non superiore al 60%, o, se superiore, avvicinandolo al 60% con ritmo adeguato. Che? Ma che roba e’ questa? Ma qualcuno ci ha capito qualcosa? Nessuno, neanche i giornalisti che trasmisero la notizia figuriamoci cosa capirono da casa gli spettatori di mezza Europa. Ma l’obiettivo era proprio questo: che nessuno ci capisse nulla. A nessuno venne in mente di chiedersi (e di spiegarci) perche’ l’Inghilterra, la Danimarca e la Svezia si chiamarono subito fuori dal progetto euro (perche’ sono paesi profondamente democratici e di lasciare il potere economico e monetario in mano a una banca centrale fuori da qualsiasi controllo popolare era inaccettabile) ma soprattutto perche’ tra tutti quelli che volevano aderire (tutti gli altri) solo due paesi furono dichiarati fin da subito inammissibili nell’ area euro: l’ Italia e la Grecia. Ora, che tutte le economie dei paesi della CEE avessero bisogno di un’ aggiustatina in vista della nuova europa politica e monetaria era plausibile e che alcuni piu’ di altri avessero i conti in disordine ci poteva anche stare ed era anche logico che la Grecia, il paese piu’ povero d’Europa, se ne stesse fuori visto che aveva una capacita’ produttiva media per cittadino ovvero il PIL pro capite di 10.314 dollari. Ma che l’Italia, settima economia mondiale, ne fosse esclusa con un PIL pro capite di 16.229 dollari mentre il Portogallo era stato dichiarato idoneo con i suoi 11.130 dollari a testa cosi’ come l’Irlanda (11.711 dollari), la Spagna (12.498 dollari), la Finlandia (14.646 dollari) proprio non tornava. Il fatto e’ che la Grecia non era stata esclusa da Eurolandia perche’ era l’ economia piu’ povera dell’ UE o perche’ avesse troppi debiti, o per una questione di qualche punto percentuale in piu’ o in meno nei parametri. La Grecia era fuori perche’ era ed e’ il paese con la piu’ grossa economia sommersa del continente (in percentuale sul PIL). Secondo i dati resi noti dallo stesso governo greco a fine 2006, se domani tutte le attivita’ in nero (criminali o meno) dei Greci venissero regolarizzate il PIL della Grecia partirebbe a razzo di un +25% per un valore di 76 miliardi di dollari in piu’. Per definizione il nero, frutto di attivita’ criminali come il contrabbando o il traffico d’armi oppure semplice evasione fiscale, sfugge a qualsiasi controllo di politica monetaria e dunque al controllo di qualsivoglia istituzione bancaria e finanziaria nazionale o internazionale che sia. Per di piu’ sebbene l’economia greca sia una delle piu’ ingiuste del continente (350 aziende possiedono il 50% della ricchezza del paese) il sommerso e’ assolutamente democratico visto che in gran parte e’ rappresentato dagli introiti turistici non dichiarati (affitti di camere e case per le vacanze, scontrini non battuti, fatture non emesse) e quindi e’ difficile anche da manovrare (se fosse stato tutto in mano a qualche gruppo di potere o associazione criminale si sarebbe trovato facilmente il modo di negoziare perche' il denaro sporco, per definizione, ha sempre necessita' di essere lavato). Poi pero’ per il rotto della cuffia il 19 giugno del 2000 la Grecia viene ammessa nell’euro. Perche’? In 8 anni aveva sbaragliato l’evasione fiscale? Aveva arrestato i contrabbandieri e i mafiosi? Aveva fatto riemergere il nero? No, piu’ semplicemente aveva falsificato i bilanci come la stessa Grecia ha poi ammesso di fronte alla Commissione Europea nel 2004. Buffo, se non lo dichiaravano loro non se ne sarebbe accorto nessuno, ne’ la commissione ne’ tanto meno la Banca Centrale Europea o i mercati valutari. E dopo una dichiarazione cosi’ esplosiva che faceva saltare tutti i parametri di Maastricht e attaccava alle fondamenta la credibilita’ dell’euro cosa e’ successo? Fine della moneta unica? Crollo della BCE? Crisi dell’euro? Contraccolpi sul cambio euro-dollaro? Niente, non e’ successo assolutamente niente. Questo perche’ i parametri di Maastricht erano politici non tecnici. Cioe’ erano accordi tra burocrati, convenzioni alle quali politica e finanza dovevano attenersi in linea di massima ma non intaccavano minimamente l’euro in quanto moneta e il suo valore. Erano insomma solo aria fritta, parole vuote, false pretese, fumo negli occhi per confondere e distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da quelli che erano invece i tre punti fondamentali stabiliti dal Comitato Delors alias dalla BIS (Bank for International Setllement di Basilea, la Mediobanca dell’ economia mondiale) necessari al buon funzionamento dell’operazione moneta unica e che erano: la mobilita’ della forza lavoro da realizzarsi con la trasformazione della Comunita’ Economica Europea in Unione Europea (da un’ area di integrazione commerciale a un’area di integrazione politica ed economica), la libera circolazione dei capitali con il varo del Patto di Stabilita’ (la riduzione a tutti i costi del debito pubblico), e il livellamento monetario continentale con l’istituzione della Banca Centrale Europea (controllo centralizzato della quantita’ di soldi in circolazione). E l’Italia questi tre punti, come probabilmente dichiarato/confermato da Carlo Azeglio Ciampi e Tommaso Padoa Schioppa durante i lavori del comitato Delors negli uffici della BIS, li bucava in pieno. Dal punto di vista del lavoro l’Italia era un paese tra i piu’ garantisti in Europa. La riduzione del debito pubblico per Maastricht piu’ che politica fiscale piu’ severa altro non era che la totale privatizzazione di tutte le aziende pubbliche in mano allo stato e l’Italia con l’IRI era il paese europeo con il comparto pubblico piu’ grande d’ Europa. Per uno stato possedere settori come i trasporti, le comunicazioni, il monopolio energetico significava orientare le politiche aziendali al servizio pubblico (sconti per studenti, anziani, tariffe popolari, agevolazioni) piuttosto che al profitto indirizzando il mercato al miglioramento del tenore di vita generale piuttosto che all’ interesse individuale. Le privatizzazioni invece avrebbero colpito direttamente e duramente il portafoglio dei cittadini e dunque il loro gia’ sottile patrimonio costringendoli a pagare caro quello che prima aveva un prezzo politico impoverendoli e precarizzando ulteriormente la loro vita e dall’altra parte facendo affluire una massa di denaro enorme non piu’ nelle casse di tutti ma nelle tasche di pochi privati. Infine in tema di livellamento monetario in Italia c’erano troppi soldi ancora in mano ai piccoli risparmiatori in una galassia incontrollabile di minuscole realta’ locali e personali. Tutto quel denaro doveva assolutamente ritornare sotto controllo ovvero nelle mani di pochi e preferibilmente nelle casse delle banche (meglio se centrali) da dove il controllo sarebbe risultato piu’ semplice. La ragione di tanti soldi in giro e’ storia vecchia. Ai tempi della guerra fredda in Italia con il piu’ grande partito comunista del blocco occidentale (che per poco con Aldo Moro non fini’ al governo se non fosse stato per un provvido rapimento da parte dei brigatisti rossi) i governi filo-americani prima DC poi pentapartitici per mantenere alto il consenso politico nei loro confronti e in quelli del capitalismo all’ americana non solo distribuivano posti di lavoro a pioggia nel settore pubblico o in aziende pubbliche con esuberi inquietanti (come nel caso delle ferrovie), ma anche concedevano regalie tra le piu’ varie (come le pensioni baby o quelle ai falsi invalidi) e avevano creato strumenti finanziari per tutti, facili e dal rendimento sicuro (come i buoni fruttiferi delle poste: in 7 anni il capitale triplicava senza rischi). Un diluvio di denaro sparpagliato su tutta la penisola che teneva lontano lo spettro del leninismo. Ma i tempi erano cambiati e adesso si doveva muovere le masse nella direzione opposta cioe’ farle passare dalla sicurezza economica (garantita anche dai risparmi accumulati) all’ incertezza patrimoniale e l’ Italia, in questo senso, era di molto indietro rispetto a tutti gli altri. Ecco perche’ l’Italia nel 1992 era da considerarsi fuori dall’ euro e se le sue elites politiche ed economiche volevano sedersi al banchetto della moneta unica con i colleghi europei dovevano mettere al passo il loro paese. FASE I: LA CONVERGENZA. L’ ITALIA ESCE DALLO SME Le banche italiane, uniche in tutta Europa, tra il 1990 e il 1992 lanciarono sul mercato i “mutui in ECU” che vennero sottoscritti da 800 mila clienti. Ma l’ ECU era un’ unita’ di misura non una moneta quindi non poteva essere prestata e infatti i mutui in ECU non erano in ECU ma in franchi francesi o marchi tedeschi, le due principali monete di riferimento nella determinazione dell’ ECU. Dove stava la convenienza secondo chi proponeva, ma non spiegava, l’ operazione cioe’ le banche? Il contratto di mutuo “denominato in ECU” stabiliva che il tasso di interesse annuo avrebbe subito variazioni in base alla percentuale occupata dalla valuta prestata (franco o marco) nella determinazione dell’ ECU. Siccome il Sistema Monetario Europeo prevedeva oscillazioni minime tra le 12 valute CEE (massimo fino al 2,25%) e dal 1979, anno della sua entrata in vigore, mai aveva avuto problemi di sorta praticamente il prestito sarebbe risultato a tasso fisso quando quelli in lire, all’ epoca, subivano forti variazioni annuali. Il 2 giugno 1992 sul "Britannia", storico yacht di proprieta’ di Elisabetta II d'Inghilterra, al largo dell’ Argentario si tenne un meeting congiunto tra banchieri e finanzieri italiani e inglesi. Capo delegazione per l’ Italia era Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro poi professore a Harvard poi dirigente della banca Goldman Sachs poi governatore della Banca d’ Italia, che insieme (tra gli altri) al pluriministro Beniamino Andreatta, maestro di Romano Prodi che di li’ a poco sarebbe stato rifatto ministro del bilancio da Giuliano Amato, e a Giulio Tremonti, avvocato fiscalista poi ministro dell’ economia sotto Berlusconi, tenne dei negoziati riservati con non meglio precisate controparti britanniche. Nessuno sa cosa si dissero di preciso italiani e inglesi (ne’ chi pago’ alla regina Elisabetta l’ affitto del Britannia) fatto sta che il 13 settembre 1992, per la prima volta in 13 anni la lira durante le contrattazioni di cambio sul marco sforo’ il 2,25% di oscillazione massima e perse sulla moneta tedesca il 7% che da 756 lire balzo’ a 814,8 e quello stesso giorno l’ Italia usci’ dallo SME. Curioso che tutto d’ un tratto in Italia ci fosse una cosi’ gran richiesta di marchi mai vista prima di allora ma ancora piu’ curioso e’ il fatto che il 16 settembre la sterlina, senza alcuna ragione apparentemente valida, decise anche lei di abbandonare lo SME. Una coincidenza che pochi mesi prima la finanza italiana e inglese si fossero incontrate sul Britannia? E che gli stessi che compravano e vendevano marchi a Piazza Affari (coloro che ne determinavano il valore di cambio) e che avevano fatto crollare la lira fossero gli stessi che avevano partecipato al meeting sullo yacht reale e che avevano lanciato i mutui in ECU cioe’ le banche? Forse, ma se di coincidenze si trattava di sicuro gli 800 mila sottoscrittori di mutui in ECU non apprezzarono il gioco del destino visto che senza piu’ Italia e Inghilterra nello SME la percentuale del marco e del franco nell’ ECU aumentava del 23 per cento circa cosi’ come il tasso di interesse sui loro contratti di mutuo. E non era finita qui. Il 17 settembre il premier Giuliano Amato per far fronte alla grave crisi finanziaria in cui l’ Italia sembrava fosse caduta uscendo dallo SME (solo perche’ il marco valeva 58 lire in piu’ neanche il costo di una caramella) e per permettere al paese di rientrare nei tanto vitali parametri di Maastricht annuncio’ una supermanovra straordinaria da centomila miliardi di lire (o 50 miliardi di euro) che prevedeva tra le altre il congelamento degli stipendi nel pubblico impiego, la riforma delle pensioni con l’ aumento dell’età pensionabile e il blocco dei pensionamenti, una tassa straordinaria sui conti correnti bancari, i ticket sanitari, la tassa sul medico di famiglia, e la tassa sugli immobili a tutti tristemente nota come ICI. Sulla questione SME-Amato fu perentorio il commento dell'avvocato Giovanni Agnelli (padrone-presidente FIAT) che in un convegno di Confindustria a Parma dichiaro’: "Per la prima volta qualcuno sta provando a raddrizzare le cose". Chissa’ a chi e a cosa si riferiva. Sicuramente non ancora alla riforma previdenziale Dini che diminuiva l’ importo delle pensioni perche’ e’ del 1995 e a quella Prodi del 1997 che alzava ulteriormente l’ eta’ pensionabile, sicuramente non ancora all’ eurotassa, detta tassa straordinaria per l’ Europa, imposta dal governo di Romano Prodi “per entrare in Europa” che dreno’ dalle tasche degli italiani altri 11.500 miliardi di lire (5,75 miliardi di euro) perche’ arrivo’ nel 1998, sicuramente non ancora alla “legge Biagi” che precarizzava il lavoro giovanile che fu promulgata nel 2001. Ma sicuramente l’ avvocato Agnelli le avrebbe approvate tutte gia’ nel 1992. FASE II: LE PRIVATIZZAZIONI. L’ ITALIA IN (S)VENDITA L’ IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) era una holding (un gruppo di societa’) statale creato nel 1933 per salvare dalla bancarotta le principali banche italiane dell’ epoca (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma) poi in seguito, soprattutto dagli anni ’50, acquisi’ e salvo’ un’infinita’ di altre compagnie e aziende nei settori piu’ disparati dalla cantieristica navale all’ elettronica. Lo scopo dell’ IRI era quello di recuperare aziende private sull’ orlo del fallimento comprandole a un prezzo politico, ricapitalizzarle con denaro pubblico salvando la produzione e i posti di lavoro, e una volta ritornate in utile e recuperati i soldi investiti rivenderle sul mercato. Di fatto tutto cio’ che entrava nell’ IRI non ne riusciva in quanto il gruppo (in teoria) man mano che si fosse fatto piu’ grande e articolato con l’ aumento delle sue sinergie avrebbe fatto risparmiare di molto lo stato nelle sue spese, garantito alle casse pubbliche un afflusso costante di denaro e permesso di portare avanti politiche sociali in favore dei cittadini. Per esempio se lo stato avesse avuto bisogno di costruire navi (gran parte del servizio passeggeri e merci era pubblico con Italia, Adriatica, Tirrenia e Lloyd Triestino) poteva commissionarle alla Fincantieri che, essendo sua, gliele avrebbe fatte pagare al semplice prezzo di costo e non al prezzo di mercato, oppure se avesse avuto bisogno di auto e di mezzi li avrebbe potuti comprare dall’ Alfa Romeo sempre al prezzo di costo, cosi’ come la benzina prodotta nelle raffinerie ENI con il petrolio estratto dalla stessa ENI e si potrebbe andare avanti all’ infinito. Oppure prestare denaro ai cittadini piu’ poveri a interessi minimi grazie alle sue banche, farli spostare a tariffe di mero costo del servizio sulle proprie ferrovie o i propri traghetti, far pagare loro l’ energia elettrica al prezzo base e non ricaricata da profitto, costruendo case piu’ economiche risparmiando sui materiali come il cemento (prodotto dalla Cementir) e i materiali in metallo (della Dalmine, della Terni, dell’ Italsider) e anche qui si potrebbe andare avanti all’ infinito. Il tutto ben regolamentato naturalmente per non affliggere il settore privato che comunque aveva tutto da guadagnare dallo stato imprenditore e che poi non rappresentava una vera concorrenza ma un fornitore a prezzi concorrenziali. Certo nel corso degli anni la malagestione del patrimonio pubblico da parte dei partiti politici aveva colpito enormemente la credibilita’ e la profittabilita’ del’ IRI che si era trasformata in un enorme e incontrollato bacino di tangenti, affari sporchi, sprechi, sperperi, favori personali, parcheggio di politici non eletti. Ma bastava solo ripulirla, riorganizzarla, ristrutturarla e gli utili e i risparmi prodotti dal gruppo avrebbero permesso ai cittadini italiani di pagare poche tasse e di vivere meglio. Invece gia’ nel marzo del 1990 la parola d’ ordine divento’: vendere. Fu creata una commissione apposita presieduta da Carlo Scognamiglio (che ha studiato alla Bocconi e alla London School of Economics e che poi e’ stato fatto presidente del senato e ministro) che nel 1992 permise la trasformazione del gruppo e di tutte le sue componenti aziendali in societa’ per azioni possedute al 100% dal Ministero del Tesoro (guidato, non presieduto, da quel Draghi del Britannia). E in quel 1992 (l’ anno di Maastricht, dell’ uscita dallo SME, della manovra Amato) parti’ la cessione del patrimonio pubblico sotto la supervisione iniziale di Romano Prodi (poi presidente del consiglio e della commissione europea) ritornato inspiegabilmente all’ IRI dopo averla lasciata nel 1989 e richiamato alla presidenza dell’ ente nientemeno che da Carlo Azeglio Ciampi (quello del comitato Delors e della BIS) nel frattempo dimessosi da Bankitalia e chiamato a guidare un governo “tecnico”. Tra il 1992 e il 1999 l’ Italia vendette tutto per un incasso pari a 185 mila miliardi di lire (piu’ di 90 miliardi di euro) cosi’ ripartiti: Il 31,6% nel settore bancario e assicurativo, il 33,2% nelle telecomunicazioni, il 13% nei trasporti, il 2,8% nell’editoria, il 3,4% nel settore alimentare, il 4,6% nel settore siderurgico, l’11,5% in altri comparti. Lo stato (cioe’ i cittadini in modo indiretto) da proprietario e i cittadini (in modo diretto) da azionisti diventarono puri e semplici clienti spesso in regime di monopolio e cominciarono i dolori. Dal 1992 ad oggi i costi per lo stato (cioe’ per i cittadini indirettamente) e per i cittadini (direttamente) di molti beni e di moltissimi servizi si sono quadruplicati. Oltre al danno la beffa. Di quei 90 miliardi di euro (come dei 50 della manovra Amato) i loro legittimi proprietari (noi) non hanno visto una lira perche’ sono finiti tutti, piu’ o meno direttamente, nelle casse della Banca d’ Italia per pagare i titoli di stato da lei ottenuti in cambio della stampa e della distribuzione delle lire. Poco male in fondo rimanevano in mano pubblica. Sicuri? Nel privatizzare tutte le aziende statali Ciampi, Dini, Prodi, Draghi, Scognamiglio, Amato, Fazio, il parlamento, il governo, la presidenza della repubblica, il ministero del tesoro, il ministero delle partecipazioni statali e la stessa Banca d’ Italia si sono (accidentalmente, per carita’) tutti quanti dimenticati di scorporare dai pacchetti azionari delle aziende pubbliche le quote di proprieta’ della Banca d’ Italia che dunque divento’ una banca privata a tutti gli effetti i cui principali azionisti erano e sono Gruppo Intesa, Unicredit, Sanpaolo IMI, Banco di Sicilia, Generali, Cassa di Risparmio di Bologna e a cascata tutte le altre che a loro volta sono diventate proprietarie del 12,52% della BCE. C’e’ bisogno di aggiungere altro? FASE III: IL RASTRELLAMENTO. IL CROLLO DEI FONDI E I CRACK FINANZIARI Tra il 1992 e il 1997 il costo della vita (volgarmente o impropriamente detto “inflazione” come si legge in tutti i documenti degli uffici di statistica) continuo’ a salire mentre l’ inflazione vera (la solvibilita’ dello stato nel pagare i suoi bond) continuo’ a scendere andando ad affliggere il rendimento dei titoli di stato da sempre forma sicura e privilegiata di risparmio popolare. In pratica essendo incrementate le entrate dello stato la sua capacita’ di pagamento dei titoli di stato aumentava e quindi diminuiva il rischio della banca centrale nel comprare BOT, CCT e BTP emessi dallo stato italiano che di conseguenza venivano scontati sempre a meno. In soldoni i BOT da rendimenti del 15% del 1992 finirono per dare interessi sotto il 2% che tra imposte, bolli, costi e tasse varie, spese di tenuta conto e di invio di estratto conto, finivano per avere un rendimento negativo per il risparmiatore. Insomma: se si investiva in titoli di stato invece di avere un rendimento sicuro si aveva una perdita sicura. Ma i BOT people, si diceva allora, non avevano di che preoccuparsi perche’ Mario Draghi (quello del Britannia e della Goldman Sachs che guarda caso si e’ aggiudicata tutto il patrimonio immobiliare dell’ ENI in fase di privatizzazione) nel 1997 stava lavorando al “testo unico della finanza” poi approvato il 24 febbraio 1998 col nome di “legge Draghi” che avrebbe permesso a tutti i cittadini di investire in sicurezza direttamente in borsa guadagnando molto di piu’ che con gli ormai superati titoli di stato. Infatti nel 1997 per far fronte alle esigenze dei risparmiatori delusi dai BOT le banche italiane (divenute proprietarie della Banca d’ Italia, l’ ente che avrebbe dovuto controllarle) aprirono al mercato i “fondi comuni di investimento”. I loro promotori finanziari a tutti i clienti ripetevano che con i fondi guadagnare era facile come bere un bicchier d’acqua. Infatti il fondo al quale si partecipava essendo gestito da analisti esperti e potendo smuovere una quantita’ di denaro impressionante dettava lui gli indirizzi del mercato naturalmente a suo favore cioe’ a favore degli investitori e poiche’ investiva in numerose attivita’ immobiliari, mobiliari, finanziarie e bancarie se anche un’ operazione o un’ affare fosse andato male sarebbe stato controbilanciato da tutti quelli andati a buon fine secondo il criterio del portafoglio o della differenziazione degli investimenti. Convincente direi e infatti tra il 1997 e il 1999, in appena due anni, i fondi italiani raggranellarono l’esorbitante cifra di 433 miliardi di euro con rendimenti a due cifre che invitavano sempre piu’ risparmiatori a lasciare le securities per le quote di fondi. E non poteva essere altrimenti visto che il guadagno medio dei fondi collocati in Italia nel 1999 raggiunse il 34%. Accecati dai facili guadagni nessuno si domando’ come mai proprio dal 1997 i prezzi delle case cominciarono ad impennarsi incredibilmente (aumentando di conseguenza l’ importo e la durata dei mutui), cosi’ come un’ azienda costituita da un garage con un computer dentro valesse in totale piu’ dell’ intera FIAT (e’ la new economy, gente!), e perche’ le aziende si fossero messe a vendere a prezzo di favore ai loro dipendenti le azioni della societa’ in cui lavoravano con vincoli di vendita (cioe’ non potevano essere vendute prima di una certa data) di qualche anno ma i manager venivano pagati con stock options (titoli che la societa’ che li emette e’ obbligata a ricomprare in qualsiasi momento a un prezzo pattuito di solito molto piu’ alto del valore delle azioni della stessa societa’come quelle vendute ai dipendenti). Non sara’ mica che per far crescere la bolla speculativa le banche che erano proprietarie delle SGR, le societa’ di gestione del risparmio create da Draghi, che erano a loro volta proprietarie dei fondi comuni di investimento acquistavano immobili sotto sequestro fallimentare o pignorati o ipotecati (dalle banche) e poi li mettevano a bilancio a un fittizio e gonfiato valore di mercato (che loro stesse decidevano grazie alle loro societa’ immobiliari), oppure che i fondi finanziavano le imprese tradizionali o le dotcom (le imprese del nuovo mercato) in cambio di una parte cospicua o totale delle loro azioni (parzialmente vendute ai dipendenti e non cedibili a breve) rilasciandole gradatamente sul mercato in modo da farne lievitare il valore (per la legge della domanda e dell’ offerta) o ancora che i fondi di proprieta’ delle banche compravano e vendevano i titoli delle banche stesse (conflitto d’ interesse: il fondo compra la sua banca, la banca compra il suo fondo) per farne aumentare il prezzo? Chissa’. Una cosa e’ certa: nel 2000 (molto prima dell’ 11 settembre) i fondi italiani inspiegabilmente crollarono mediamente del 24%, l’ anno dopo del 26% e l‘ anno dopo ancora del 28%. In meno di tre anni gli italiani si ritrovarono senza piu’ 70 miliardi di euro e tutto il resto dei loro risparmi bloccato in banca visto che era folle disinvestire con una perdita media netta di almeno il 20% con punte del 43 per cento (Ducato Set Tecnologia, Gestn AZ Tecnologia), 47 per cento (ING IT Fund) e 49 per cento (Ducato Geo Eu Alto Pot). La perdita era solo degli investitori naturalmente visto che le banche tra il 1999 e il 2002 tra commissioni di ingresso, di uscita, di gestione e di rendimento si portarono a casa 18,7 miliardi di euro. Per soccorrere i risparmiatori italiani disperati e confusi dopo tante perdite (con il trading online, le azioni delle aziende privatizzate dimezzatesi di valore rispetto al prezzo di acquisto e meno male che con i privati avrebbero dovuto funzionare meglio o con i fondi comuni) le banche proposero alla gente che era passata dallo stato di risparmiatore (con i BOT) a quello di speculatore (con i fondi) di divenire direttamente imprenditore prestando denaro alle imprese e guadagnando dalle loro performance economiche. Tutto quello che dovevano fare era sottoscrivere dei bond. Facile come bere un’ altro bicchier d’ acqua (sebbene quello dei fondi si fosse rivelato veleno). L’ azienda, la cui integrita’ e veridicita’ di bilancio era certificata da una grande e credibile banca d’ affari che non poteva mentire, chiedeva denaro al mercato per investire e ampliare le proprie attivita’ che le avrebbero permesso di incrementare in modo incredibile gli utili che avrebbe resituito sotto forma di interessi da capogiro sul denaro prestato fino ad oltre il 10% anche trimestrale. Il tutto in massima sicurezza. Ora io non so chi abbia sbagliato e dove, forse le banche italiane nel valutare l’ affidabilita’ delle aziende per la concessione di fidi e di mutui, forse le grandi banche d’ affari a fare somme e sottrazioni nel ricalcolare i bilanci, forse il fisco nel rivederli, forse Bankitalia nel supervisionarli, forse la CONSOB nel certificarli, fatto sta che tutte le aziende che in Italia furono autorizzate a godere dell’ emissione di bond sono tutte fallite tra il 2001 e il 2004. Nell’ ottobre 2001 parte la Bibop-Carire con 10 miliardi di crack e 73.500 investitori coinvolti, nel dicembre 2001 e’ la volta dei bond argentini (che non erano titoli di stato dell’ Argentina come comunemente si crede ma finanziamenti ad aziende argentine come la Telecom Argentina) con 14 miliardi e 475.000 coinvolti, nel novembre 2002 la Cirio (1,25 miliardi e 35.000 coinvolti), nel marzo 2003 My Way un pacchetto di finanziamenti a varie imprese (2,85 miliardi e 190.000 coinvolti), nell’ ottobre del 2003 Giacomelli (0,3 miliardi e 6500 coinvolti), nel dicembre 2003 Parmalat (20 miliardi e 145.000 coinvolti), nel gennaio 2004 la Finmatica (0,35 miliardi e 25.000 coinvolti), nel maggio 2004 Finmek (0,25 miliardi e 13.850 coinvolti), nel luglio 2004 la Cerruti-Fin Part (0,8 miliardi e e 28.500 coinvolti), per finire nel novembre 2004 con La Veggia (0,3 miliardi e 8300 coinvolti). Un totale di 50,1 miliardi di euro svaniti e 1 milione e 650 mila italiani al verde. Una carneficina. Strano pero’. Di solito se una persona normale sbaglia una virgola nel compilare la sua dichiarazione dei redditi il fisco in un lampo lo multa, gli fa pagare una mora e magari lo diffida per vie legali e in Parmalat (quotata in borsa e quindi con bilanci super verificati da almeno 3 enti differenti piu’ da tutte le banche e le societa’ di revisione internazionali) degli ammanchi per 20 miliardi di euro non se ne era accorto nessuno se non Beppe Grillo. Strano davvero. Di solito appena il conto va leggermente in rosso la banca chiama subito per venirlo a sistemare applicando la commissione di massimo scoperto, interessi negativi e chissa’ che altro e alla Finmek/Finmatica/Finpart che da anni erano prede dei bottom feaders (coe’ coloro che sfruttano tutto lo sfruttabile di un’ azienda in crisi e poi la fanno fallire) hanno tranquillamente concesso credito e altrettanto tranquillamente lo hanno rivenduto ai clienti. Stranissimo. L’ unica cosa non strana e’ che i titolari dei bond delle aziende fallite non rivedranno un centesimo in quanto i soldi sottratti illegalmente (come nel caso Parmalat) sono irrintracciabili in vari paradisi fiscali e comunque in un fallimento il tribunale deve, per legge, per prima cosa risarcire le banche (che sulla vendita di bond ci hanno pure preso le commissioni e le spese), se rimane qualcosa i lavoratori e se rimane qualcos’ altro i soci e gli investitori. Inutile dire che in ogni fallimento al secondo passaggio si arriva raramente. Era tutto programmato in funzione dell’ entrata dell’ euro o tutto questo e’ stato semplicemente un processo che si e’ innescato per cause o fattori differenti? Difficile a dirsi ma secondo me e’ esemplificativo il caso del San Paolo IMI. La banca Torinese nel 2002 fu riconosciuta colpevole da un tribunale di primo grado di aver sottratto tra dicembre del 1999 e maggio 2000 ai sottoscrittori dei fondi Soluzione 6 e 7 in modo illegale e scorretto 82 milioni di euro e fu condannata a pagare una multa allo stato di quasi mezzo milione di euro e a restituire i soldi ai clienti. Ma la banca nel 2003 in appello vinse la causa per motivi procedurali in quanto la Consob (sotto Padoa Schioppa quello del Comitato Delors, della BIS e della BCE) aveva impiegato 3 giorni in piu' dei 180 previsti dalla legge per chiudere le indagini e il Ministero dell' Economia (sotto Giulio Tremonti quello del Britannia) 122 invece che 120 per decretare l’ illecito. Una provvidenziale (e sospetta) doppia dimenticanza. MA INSOMMA LA POLONIA E’ PRONTA PER L’ EURO? Dopo la fine del comunismo nel 1989 anche la Polonia, come tutti gli ex paesi comunisti, ha adottato senza riserve il sistema delle banche centrali a modello europeo ed americano che inghiottono il denaro pubblico e indebitano lo stato con se’ stesso. In fondo come dice Forrest Capie, professore di storia economica alla Columbia University “ se il criterio fondamentale dell’ evoluzione del successo e’ che un’ organizzazione si riproduca e si moltiplichi e che muti a seconda delle sfide dei tempi, quella delle banche centrali e’ il sistema di maggior successo al mondo”. La Polonia come tutti gli altri paesi ex sovietici una volta passata al capitalismo ha introdotto contratti di lavoro ingiusti e sottopagati, individuali e non collettivi, stage gratuiti obbligatori, lavoro precario e facilita’ di licenziamento oltre a un sistema pensionistico con un’alta eta’ pensionabile, forti contributi, senza TFR e con l’ obbligo di sottoscrivere fondi pensione privati (come in tutta Europa e i fondi pensione sono come i fondi comuni di investimento solo che li’ i soldi si versano in modo continuo e obbligatorio e non si possono ritirare se non sotto forma di rendita quando si va in pensione). La Polonia, come tutti gli altri paesi del defunto Patto di Varsavia, ha privatizzato svendendo per un tozzo di pane tutto il suo patrimonio industriale e infrastrutturale che oggi e’ quasi per intero in mano ad aziende europee ed americane. Tanto per dirne una in tutta la Polonia non esiste una sola banca a capitale polacco escluso la PKO che e’ statale ma che e’ considerata dal mondo degli affari come una banchina di serie B da pensionati. E la Polonia con gli ex colleghi bolscevichi e’ stata vittima del rastrellamento monetario attraverso il gioco delle finanziarie comparse ovunque tra la Russia e l’ Albania. La storia la conosciamo tutti. Queste societa’ attiravano gli ingenui investitori neo-capitalisti e li invitavano a dar loro tutti i soldi che avevano in cambio di forti percentuali sugli interessi che all’ inizio venivano regolarmente pagati con i soldi dei nuovi investitori e poi tutto a un tratto le societa’ sparivano o fallivano vaporizzando con loro tutti i soldi. L’ operazione e’ stata troppo sistematica per essere una semplice coincidenza senza contare che queste finanziarie domandavano non dollari o monete straniere ma la valuta del passato regime comunista che era carta straccia e invendibile all’ estero. Che guadagno ne avevano? E’ chiaro che queste societa’ dovevano raccimolare la carta moneta dei passati regimi (e possibilmente anche qualche dollaro o marco) perche’ sparisse dal mercato e i cittadini di questi paesi non avessero la possibilita’ di cambiarla nella nuova valuta che sarebbe venuta una volta rifondata la banca centrale. Allora la risposta alla domanda “la Polonia e’ pronta per l’ euro?” non puo’ essere che “si’, la Polonia e’ pronta per l’ euro” perche’ ha tutte le caratteristiche essenziali per essere un paese di eurolandia. Ma non e’ questo il punto. Quello che c’e’ da chiedersi e’ “alla Polonia conviene entrare nell’ euro?” e la risposta stavolta e’ “no” come non e’ convenuto a nessuno di noi. Oddio, diciamo a quasi nessuno di noi perche’ a qualcun’ altro e’ convenuto eccome. Martedì 10 Aprile 2007 08:20 |
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21/04/2007 : signet@work : sandro pascucci : www.signoraggio.com v.0.5 [http://www.signoraggio.com/signoraggio_europolacco.html] |